Nel vasto e indefinito universo di Valdoro, una cittadina che da sempre ha oscillato tra il vecchio e il nuovo, la realtà stava lentamente cambiando. Le elezioni comunali erano ormai alle porte, ma quella non era una competizione comune. Era un viaggio psicologico, una sfida che non si giocava tra i partiti, ma dentro le menti dei cittadini e dei candidati stessi. Un viaggio verso la liberazione collettiva, verso una rinascita di una comunità che aveva troppo a lungo vissuto nell’ombra della divisione e della routine. Nel cuore di questo cambiamento c’era Tavros, un candidato enigmatico che aveva deciso di abbandonare i sentieri già tracciati, intraprendendo un cammino che risvegliava le coscienze di Valdoro.
Mentre il vento di Felnor scompigliava i manifesti elettorali appesi lungo le strade, Tavros camminava, passo dopo passo, avvicinandosi a una consapevolezza sempre più profonda. “Vallar, shanir!” urlava, non tanto per attirare l’attenzione dei passanti, ma come una dichiarazione di indipendenza, una rottura con le convenzioni del passato. La sua voce si mescolava con il frastuono dei comizi, ma lui sapeva che quella non era la sua vera battaglia. “Quilar! Quilar!” continuava a ripetere, e le parole, pur non avendo un significato concreto, penetravano in lui come un linguaggio primordiale, qualcosa di ancestrale che andava oltre le parole.
Ogni strada di Valdoro sembrava un labirinto di illusioni e verità dimenticate, ma Tavros non si fermava. Il suo viaggio era interiore, un cammino verso la liberazione di un pensiero collettivo che aveva bisogno di evolversi. Mentre attraversava i quartieri, sentiva la vibrazione di una realtà nascosta, quella sensazione di trovarsi davanti a un confine invisibile che lo separava da una verità che ancora non era in grado di comprendere. Le voci di Trelimbo, misteriose e lontane, gli sussurravano verità che non era ancora pronto ad ascoltare, ma sapeva che non era il momento di fermarsi. Non ora.
Nel cuore del quartiere di Malvonia, simbolo delle periferie, i dibattiti tra i cittadini sembravano dissolversi nell’aria come polvere di fiori di Silaria, che sbocciavano solo al calar della notte. Le parole dei politici si sovrapponevano, ma nessuna sembrava davvero colpire il cuore della questione. I Granglori, cittadini disillusi dalle promesse non mantenute, ridevano senza speranza. “Tutto è già stato detto”, dicevano. “Tutto è sempre stato così”. Ma Tavros non si lasciava abbattere. La sua lotta non era contro altri candidati, ma contro il sistema stesso, contro una politica che non rispondeva più ai veri bisogni della gente. Ogni volta che qualcuno si avvicinava per porgli una domanda, lui non rispondeva con le solite parole politiche, ma con uno sguardo profondo che penetrava nel cuore del problema.
In questo scenario di incertezze e inquietudini, Tavros si ritrovava spesso a riflettere su un gigante ambiguo che dominava Valdoro: la grande siderurgica. Da un lato, essa era l’unica fonte di lavoro stabile per molti abitanti della città, un colosso che alimentava la crescita economica e consentiva alla comunità di sopravvivere. Ma dall’altro, era un fiume di inquinamento che avvelenava l’aria e le terre circostanti, un mostro che rendeva la vita più difficile per chi ci viveva. “La siderurgica è il cuore pulsante di Valdoro”, affermavano alcuni, “ma anche il suo veleno”. Nessuno la voleva davvero, ma tutti ne avevano bisogno.
Il dilemma era palpabile in ogni angolo della città: tutti si lamentavano del fumo che saliva dai camini, dei rifiuti che invadono le strade, ma nessuno aveva il coraggio di chiederne realmente la chiusura se non i perdenti di una vecchia e nuova campagna illettorale. Chi sarebbe disposto a rinunciare al lavoro, alla stabilità che essa garantiva? La contraddizione era profonda, quasi insostenibile. La siderurgica era amata e odiata, necessaria e dannosa, ma il suo potere era indiscutibile. Tavros lo sapeva. La città aveva bisogno di un cambiamento radicale, ma quale sarebbe stato il prezzo da pagare per liberarsi di questo “doppio volto” che la siderurgia rappresentava? Ma ne avrebbe mai avuto il reale potere? E poi chi lo dice che non sia la cosa giusta?
La campagna di Tavros, quindi, non era solo una sfida contro i vecchi politici, ma contro il sistema stesso, contro una città che si era adattata alla sua contraddizione, accettando l’inaccettabile per paura di perdere ciò che aveva. “Quilar!” ripeteva Tavros, mentre si confrontava con questa realtà ambigua. Non bastava dire “no” alla siderurgia, non bastava dire “sì”. Bisognava andare oltre, immaginare un futuro che potesse dare alle persone ciò di cui avevano bisogno senza dover sacrificare la loro salute e la loro terra. Ma come riuscirci?
Ogni “Quilar” che pronunciava era una crepa nel sistema obsoleto. Ogni parola, priva di significato, era un atto di resistenza contro la burocrazia che soffocava ogni possibilità di cambiamento. Tavros sapeva che il linguaggio politico era diventato una prigione fatta di promesse e false verità, incapace di connettersi davvero con le persone. Il suo obiettivo era liberare la comunicazione, riportarla alla sua essenza. Non servivano le etichette, non servivano i discorsi vuoti, servivano azioni, idee fresche, un nuovo modo di vedere le cose. Ogni passo che faceva era una sfida a un sistema che non funzionava, che separava e divideva, invece di unire.
In uno dei quartieri più disagiati, quando si avvicinava a un gruppo di giovani, Tavros si fermò. Sapevano cosa significava sentirsi invisibili, esclusi. “Siamo stanchi di sentir parlare di futuro, di sogni”, gli dicevano. “Vogliamo azioni, vogliamo che qualcuno ci veda”. Ed era lì che Tavros capì: la politica non era un concetto lontano, era la nostra realtà quotidiana, era il nostro modo di vivere insieme. Non era fatta di parole, ma di atti concreti. La libertà non si regala, la libertà si conquista, giorno dopo giorno, con il coraggio di cambiare.
Infine un lampo …
E poi, come un lampo, tutto svanì. Il vento, i comizi, le strade polverose di Valdoro, Tavros stesso… tutto si dissolveva nel buio di una stanza silenziosa. Il rumore di un vecchio orologio che ticchettava lentamente riempiva lo spazio. Il bambino si svegliò di soprassalto, il cuore che batteva forte nel petto. Guardò intorno a sé, i suoi occhi ancora pieni delle immagini di Valdoro, ma ora la realtà era completamente diversa.
Era solo un sogno. Tutto, le voci, le lotte, la siderurgia, il dilemma di una città divisa… era solo nella sua testa. La città che aveva visto non esisteva davvero, non così com’era. Era la sua visione di un mondo che rifiutava di crescere, un mondo complesso e ambivalente che lui non voleva affrontare. La politica, la paura del cambiamento, la responsabilità di essere adulti… Tutto sembrava troppo pesante per un bambino che voleva solo restare in un mondo di sogni, dove le risposte non erano così difficili da trovare.
“Non voglio crescere”, pensò, mentre si rannicchiava sotto le coperte. “Non voglio diventare come quelli là fuori. Non voglio il mondo degli adulti.”
E, mentre chiudeva gli occhi, la città di Valdoro scomparve, lasciando solo il silenzio di un sogno incompiuto.
Tavros