Inconsci prigionieri del passato
“Il tempo aggiusta tutto.” Una frase che si ripete come un mantra, un’illusione rassicurante che ci permette di procrastinare il confronto con il dolore, la rabbia, il rimorso. Ma è davvero così? O il tempo, lasciato a se stesso, non fa altro che sedimentare ciò che evitiamo, trasformandolo in un veleno silenzioso pronto a manifestarsi quando meno ce lo aspettiamo? La psicologia e la psicosomatica ci insegnano che il rimosso non svanisce nel nulla. Il non detto, il non elaborato, il non risolto trovano altre vie per emergere: nelle nostre reazioni, nei nostri comportamenti, perfino nel nostro corpo. Freud parlava di “ritorno del rimosso” per descrivere come i traumi non elaborati possano riaffiorare sotto forma di sintomi nevrotici. Jung, dal canto suo, evidenziava come l’ombra – tutto ciò che non vogliamo vedere di noi stessi – finisca per governare le nostre azioni se non viene integrata nella coscienza.
L’ereditarietà dell’irrisolto: memorie transgenerazionali ed epigenetica
Anne Ancelin Schützenberger, con il suo concetto di sindrome degli antenati, ci ha mostrato come i traumi irrisolti non appartengano solo all’individuo, ma si trasmettano da una generazione all’altra attraverso dinamiche inconsce, ripetizioni di eventi e sintomi psicosomatici. Bert Hellinger, con il metodo delle Costellazioni Familiari, ha ulteriormente evidenziato come i conflitti non risolti di un membro della famiglia possano influenzare i discendenti, creando schemi di sofferenza che si perpetuano nel tempo. L’epigenetica conferma oggi ciò che la psicogenealogia aveva intuito: le esperienze traumatiche possono lasciare tracce nel nostro DNA, influenzando l’espressione genica senza alterare la sequenza nucleotidica. Studi condotti sui sopravvissuti all’Olocausto e sui loro discendenti hanno mostrato come il trauma possa modificare l’attività di alcuni geni legati alla risposta allo stress, determinando una maggiore vulnerabilità a disturbi d’ansia e depressione. Boris Cyrulnik, neuropsichiatra e studioso della resilienza, sottolinea come il nostro passato familiare e i traumi ereditati possano essere trasformati, ma solo attraverso un lavoro consapevole di elaborazione e comprensione. Quando evitiamo di affrontare il nostro dolore, rischiamo di lasciarlo in eredità ai nostri figli e nipoti, sotto forma di paure inspiegabili, blocchi emotivi o addirittura disturbi fisici. Questo perché il corpo e la psiche trattengono ciò che non viene elaborato, e la storia familiare diventa un fardello silenzioso che continua a influenzare le nostre vite.
Il tempo come tappeto sotto cui nascondiamo la polvere
Immaginiamo di avere un tappeto sotto cui gettiamo la polvere per non vederla. A breve termine, la stanza sembra in ordine. Ma col passare del tempo, quella sporcizia accumulata inizia a corrodersi, a marcire, e quando finalmente il tappeto viene sollevato, ciò che troviamo è molto più dannoso di quanto avremmo affrontato all’inizio. Lo stesso accade con il dolore non affrontato. Non si dissolve, non evapora. Si insinua nelle relazioni, si manifesta con reazioni sproporzionate, con rabbia repressa, con ansia latente o, nei casi più gravi, con sintomi psicosomatici che il corpo utilizza come ultimo tentativo per farci ascoltare ciò che la mente ha messo da parte.
Una storia di irrisolto e di liberazione
“Daniela aveva sempre avuto difficoltà nelle relazioni. Ogni volta che qualcuno si avvicinava troppo, trovava un motivo per allontanarlo, un dettaglio che non andava, un’inezia che diventava insopportabile. Un giorno, durante una seduta, la sua psicologa le chiese di parlare della sua infanzia. Daniela raccontò del padre severo, della madre silenziosa e di quella sensazione costante di non essere abbastanza. Nulla di traumatico, diceva lei, solo un’infanzia normale.
Ma poi ricordò. Ricordò il giorno in cui, da bambina, il padre le aveva detto che era un peso. Ricordò la notte passata a piangere, il desiderio di essere diversa, migliore, più meritevole di amore. Quella frase, rimossa per anni, aveva scavato solchi profondi nella sua psiche, impedendole di fidarsi, di lasciarsi amare.
Negli anni successivi, Daniela portò dentro di sé questa ferita senza rendersene conto. Scelse partner che non la valorizzavano, accettò rapporti squilibrati, si impose di non chiedere mai troppo per paura di risultare ingombrante. Fino al giorno in cui un uomo, Andrea, le disse qualcosa che la riportò indietro nel tempo: “A volte sembri voler scomparire, come se credessi di non avere il diritto di stare qui.” Quelle parole furono un colpo al cuore.
In quel momento capì che il problema non erano gli altri, ma il suo dolore non affrontato. Con il tempo e con il giusto supporto, Daniela iniziò a riconoscere quel dolore, ad accoglierlo e a smettere di seppellirlo sotto il tappeto. Non fu facile, ma pian piano le sue relazioni cambiarono. Smise di scappare, iniziò a scegliere, e soprattutto, smise di sentirsi un peso. Per la prima volta si permise di essere amata senza paura di essere abbandonata.”
Trauma, rimozione e ritorno del dolore
Numerosi studi sulle neuroscienze affettive dimostrano che il trauma non elaborato resta attivo nel cervello, in particolare nell’amigdala, il centro della paura e delle emozioni. Quando un evento doloroso non viene affrontato, l’ippocampo non riesce a inserirlo in una narrazione coerente, e il trauma resta intrappolato in uno stato di attivazione cronica. Questo meccanismo è alla base del disturbo post-traumatico da stress (PTSD), in cui il passato continua a influenzare il presente attraverso flashback, ipervigilanza, difficoltà relazionali. Van der Kolk, nel suo libro Il corpo accusa il colpo, evidenzia come il trauma si cristallizzi nel corpo e nelle reazioni fisiologiche. La guarigione non avviene col tempo in modo automatico, ma attraverso un’elaborazione attiva che può avvenire con l’aiuto di un sostegno psicologico, della mindfulness, del movimento corporeo consapevole, della scrittura espressiva e di altre tecniche integrate. Tra queste, il Traumatic Incident Reduction (TIR) si è rivelato un approccio efficace per destrutturare i ricordi traumatici, permettendo alla mente di rielaborarli in modo non distruttivo e interrompendo il ciclo della rimozione e della ripetizione.
Le ferite narcisistiche e l’inutilità della vendetta
Un altro errore comune è credere che la vendetta possa lenire il dolore. In realtà, quando cerchiamo di far pagare all’altro ciò che ci ha ferito, stiamo solo perpetuando il trauma dentro di noi. La ferita narcisistica, concetto introdotto da Heinz Kohut, si manifesta quando il nostro senso di valore viene intaccato da un’esperienza dolorosa. Il desiderio di vendetta è spesso una proiezione della nostra sofferenza non elaborata, un tentativo di restituire all’altro quel dolore che in realtà continua a bruciare dentro di noi.
Affrontare il dolore nel “tempo giusto”
Esiste però un tempo giusto per affrontare il dolore. Forzare un’elaborazione prematura può essere controproducente, così come ignorarlo per troppo tempo. A volte è necessario un periodo di attesa, uno spazio per ritrovare le energie, per poi affrontare il vissuto con consapevolezza. Il tempo può essere un alleato solo se viene usato per prepararsi al confronto, non per evitarlo.
Dunque, la vera guarigione non è una questione di tempo, ma di volontà e di strumenti adeguati. La sofferenza negata non si dissolve: si trasforma in sintomi, in rancore, in dipendenze e malattie. Solo il lavoro su di sé, la consapevolezza e l’elaborazione autentica possono sciogliere quei nodi che il tempo, da solo, non sa districare.