
La nostalgia di un tempo che non c’è.
Lo incontrai in un caffè fuori dal tempo, uno di quelli nascosti tra vicoli che sembrano respirare ancora l’alito di un secolo passato. Aveva il volto pallido, come chi ha guardato troppo a lungo l’invisibile. Portava un orologio da taschino senza lancette. “Non mi serve sapere l’ora,” disse. “Mi basta sapere che non è questa.”
Mi raccontò, con voce bassa, che da sempre aveva la sensazione di essere capitato per errore. “Non è solo nostalgia, capisci? È come se avessi lasciato qualcosa in un’epoca che non conosco, eppure ricordo. Come se avessi vissuto un tempo che la storia ha dimenticato.”Fu lui a nominare per la prima volta quella parola: eramnesia. Un’eco dal suono fragile e potente. Una parola che non avevo mai udito, ma che sembrava abitarmi da sempre.
C’è una malinconia sottile, una vertigine che prende alla gola senza una causa apparente. Non è tristezza, né senso di colpa. È come un’eco che arriva da lontano, da un tempo che non abbiamo vissuto, ma che in qualche modo ci appartiene. È l’eramnesia: la sensazione profonda, a volte struggente, di essere nati nell’epoca sbagliata.
Non è un disturbo codificato, non esistono manuali diagnostici che la elenchino. Non ci sono test clinici né farmaci che la curano. Eppure c’è. Vive nei racconti di chi guarda vecchie fotografie e sente nostalgia per un tempo mai attraversato. Vibra nei sogni di chi immagina salotti ottocenteschi, battaglie medievali, deserti attraversati a piedi nudi, o cieli stellati senza luce artificiale. Abita anche chi, con gli occhi rivolti al futuro, si sente figlio di una civiltà che ancora non esiste.
Siamo forse viaggiatori intrappolati in una linea temporale che non ci rispecchia?
L’eramnesia non riguarda solo il passato. È un senso di estraneità che può riguardare anche il presente e il futuro. Si può avvertire un senso di appartenenza a mondi che ancora devono manifestarsi, come se il tempo stesso non seguisse un cammino lineare, ma un gioco multidimensionale a cui partecipiamo senza saperlo.
E se non fosse solo una sensazione?
C’è chi sostiene che abbiamo vissuto vite precedenti, e che alcuni ricordi si siano salvati dalla dissoluzione nel bardo, lo spazio intermedio tra una vita e l’altra. Visioni fugaci, emozioni senza contesto, incontri con sconosciuti che ci guardano come se ci conoscessero da sempre. Coincidenze che si affastellano come indizi lasciati su un sentiero antico.
Altri, meno inclini alla psicologia e più attratti dal mistero, parlano di un’era dimenticata: la Tartaria. Una civiltà tecnologica e spirituale spazzata via da cataclismi, insabbiata dalla Storia, e oggi solo sussurrata da teorie senza prove. Ma, si sa, anche la fantasia è un sintomo. Di un desiderio, forse, di riconnettersi a qualcosa di grande, di perduto, di nostro.
Il bisogno di appartenenza è tra i più profondi nell’essere umano. È la radice che ci ancora al mondo, che ci fa sentire parte di una tribù, di una famiglia, di una storia. Quando manca, si cerca altrove. E può diventare pericoloso.
Chi vive in uno stato di eramnesia spesso compensa alimentando altri bisogni: il bisogno di controllo, di gratificazione immediata, di relazione, di stimolazione continua. Può nascere così un comportamento compulsivo, una forma di dipendenza non riconosciuta, che ci tiene agganciati a ciò che ci distrae dal vuoto.
Non ci sono ancora studi scientifici sul legame tra eramnesia e dipendenze, ma forse perché è un fenomeno che sfugge alla logica empirica. È una ferita silenziosa che non sanguina, ma chiede ascolto.
Poeticamente, potremmo dire che abbiamo dimenticato una parte profonda di noi. L’abbiamo lasciata indietro per conformarci, per sopravvivere, per adattarci a un mondo che ci voleva in un certo modo. Ma quella parte continua a chiamarci nei sogni, nelle malinconie improvvise, nei desideri di fuga.
Forse viviamo più vite insieme. Più realtà, più tempi, che si intrecciano nell’unico punto dove tutto accade: l’istante presente. Il tempo zero. L’unica vera porta.
Il resto – il passato, il futuro, l’epoca che sogniamo o rimpiangiamo – è Māyā, il velo che ci separa da ciò che siamo davvero. Eppure anche il sogno ha la sua funzione: ci ricorda che siamo più di quello che sembriamo, più vasti della biografia che raccontiamo.
Forse l’eramnesia è un segnale. Un invito gentile a tornare a casa, ovunque essa sia.
Egidio Francesco Cipriano
fotografia Egidio Francesco Cipriano