Appunti di una chat senza tempo
Non ci eravamo mai visti. Non c’erano fotografie nitide, né certezze da biografie incorniciate. Solo qualche riga digitata piano, in quelle ore silenziose in cui il cuore ha più voglia di raccontarsi che di difendersi.
Era una chat qualsiasi. Di quelle che apri per caso o per nostalgia. Forse per gioco. O forse per quella fame di attenzione gentile che non si placa mai davvero. Lui parlava di fiori. Di quelli che crescono nei bordi delle strade, che nessuno cura ma che ogni tanto sorprendono un passante distratto. Lei rispondeva coi nomi latini delle piante officinali, come se il tempo non fosse passato e fossero due ragazzini al primo banco, in una primavera che sa ancora di nuovo.
C’era un tono lieve, in quei messaggi. Un rispetto profondo. Come se entrambi sapessero che poteva finire presto, o diventare qualcosa. Ma nessuno dei due aveva fretta. Avevano già imparato, nella vita, che le cose belle non si rincorrono. Si coltivano.
“Sei mai stato ragazzo?”, gli aveva chiesto lei, una sera.
“L’ho fatto da adulto, quando ho capito che non serve avere quindici anni per meravigliarsi”, aveva risposto lui.
Da quel momento, il dialogo si era acceso. Non era una di quelle conversazioni che si consumano in una notte, piene di promesse evanescenti e cuori che si sciolgono nei pixel. No. Era qualcosa che odorava di carta, di tempo, di cura. C’erano fiori, sì. Ma c’erano anche pause, sorrisi, piccoli segreti.
Parlavano di come si può essere giovani anche se il volto racconta mille storie. Di come la fiducia sia un salto nel vuoto, ma anche un ponte. E che a volte basta poco: un saluto onesto, una risposta vera, la sensazione che l’altro non stia recitando un copione già scritto.
La rete è un luogo ambiguo, lo sanno. Sa essere tana di predatori con maschere levigate, ombre che succhiano energia in cambio di lusinghe. Eppure… a volte diventa altrove. Uno spazio liminale, dove le anime si sfiorano con pudore. Non si erano mai detti tutto. Non era necessario. Bastava il modo. E quel modo era sincero.
“Dove andrà a finire questa storia?”
“Forse da nessuna parte. Forse già ci siamo dentro.”
A volte sembrava che si parlassero da sempre. Altre, i messaggi arrivavano più lenti, con quel ritmo incerto di chi vuole esserci ma senza forzare.
“Ci sono giorni in cui non riesco a parlare”, aveva scritto lui.
“Ci sono giorni in cui io non riesco a tacere”, aveva risposto lei, con un vocale che sembrava una carezza.
Era questo il tono: uno spazio sospeso, non un contratto. Un dialogo dove non serviva stupire, bastava esserci. Ogni tanto, senza bisogno di scavare troppo, affioravano parole che non si dicono mai. Non per paura, ma per abitudine.
“Non sono mai stato davvero un ragazzo”, aveva ammesso lui.
“Idem, forse lo diventiamo ora”, aveva risposto lei, senza ironia.
Ed era vero. Ci sono esperienze che arrivano fuori tempo massimo. Ma fanno bene lo stesso.
L’adolescenza non è solo un fatto biologico. È anche un momento psichico che può emergere in altre età, quando ci sentiamo visti per ciò che siamo e non per ciò che abbiamo dovuto diventare.
E se la rete è terreno incerto, è anche uno dei pochi spazi dove certe anime trovano finalmente voce.
Non sempre è sicuro. Ci sono maschere raffinate, manipolazioni, giochi di potere sottili.
Alcuni usano parole come fiamme gemelle per legare, confondere, creare dipendenza emotiva. Un linguaggio affascinante, carico di illusioni, spesso usato da personalità narcisistiche per sedurre e poi svuotare.
Ma in mezzo a tutto questo, ci sono anche storie diverse. Incontri che non promettono l’eternità, ma regalano un tempo di qualità. Presenze che non ti salvano, ma ti ricordano che non sei solo. Piccoli gesti, che fanno bene. E che, se anche dovessero finire, non tolgono valore a ciò che hanno dato.
Tra esperienza soggettiva e sguardo clinico
Non si tratta solo di romanticismo o nostalgia. È un fenomeno che merita attenzione anche sul piano psicologico. L’incontro digitale, se autentico, può attivare risorse emotive sopite, facilitare processi di autoriflessione e contribuire alla ricostruzione di parti del Sé ferite o rimaste immature.
Secondo Donald Winnicott, esiste un vero Sé che può emergere solo in un contesto sufficientemente buono, dove l’altro non impone né invade, ma sostiene. Ecco perché, a volte, una semplice conversazione online può diventare uno spazio transizionale in cui si sperimenta qualcosa di nuovo, protetto, rigenerante.
Anche la teoria dell’attaccamento (Bowlby, Ainsworth) ci aiuta a capire questi legami: quando due persone si connettono in modo rispettoso e coerente, possono creare un attaccamento sicuro anche a distanza, purché ci sia autenticità, disponibilità emotiva e limiti chiari.
Dall’altro lato, come ci ricorda Otto Kernberg, nel narcisismo patologico le relazioni vengono strumentalizzate: l’altro è visto come specchio da manipolare, non come soggetto da incontrare. Ecco perché è essenziale mantenere uno sguardo critico e consapevole, senza però rinunciare alla possibilità dell’incontro.
Perché la verità è che alcune persone – anche se lontane, anche se conosciute solo da uno schermo – possono offrirci qualcosa che la vita offline ci ha negato: la possibilità di essere finalmente noi stessi, anche solo per un po’. E non è poco.
Forse non è amore.
Forse non è destino.
Ma è presenza.
Ed è già abbastanza per dare senso al tempo che passa.
Egidio Francesco Cipriano
Foto Egidio Francesco Cipriano