
Nutrire il Buddha interiore
In un’epoca senza tempo, quando il mondo ancora esitava tra sogno e materia, il Buddha sedeva all’ombra di un albero che sapeva di nascita e di polvere antica. I suoi occhi chiusi vegliavano mondi, e il suo respiro creava e distruggeva interi universi in un unico, impercettibile movimento.
Quel giorno, però, accadde qualcosa che nessuna scrittura avrebbe osato trascrivere: una banana, matura fino all’ultimo respiro della sua buccia, rotolò dal ramo e si fermò ai piedi del Risvegliato. Era una banana stanca di essere banana. Dentro di sé, covava il desiderio d’infinito che tormenta i poeti e i mendicanti.
«Sublime Signore,» sussurrò la banana, la voce come una brezza che accarezza un deserto vuoto, «che senso ha il dolce che matura solo per marcire? Che senso ha la curva perfetta che nessuno osserva, la promessa di miele che diventa solo cibo per i vermi?»
Il Buddha, che aveva insegnato agli uomini, ai deva, e ai demoni senza memoria, aprì gli occhi. E vide. Vide la banana nella sua interezza, nel suo struggimento ridicolo e sublime, nel suo desiderio incandescente di non essere più solo ciò che era.
Sorrise con tutta la compassione che un universo può contenere.
«Piccola, tenera cosa,» disse, «ascolta le Quattro Nobili Verità.»
E in quel momento le parole non erano parole: erano semi, profumi, piogge. Erano la consapevolezza che ogni forma, persino una banana dal cuore spezzato, è intrisa di sofferenza — non per errore, ma per vocazione. Il desiderio di durare, di essere più gialla, più dolce, più amata: era questa la radice della sua pena.
La banana pianse zucchero, pianse latte, pianse il sole che aveva assorbito senza comprenderlo.
«Ma vi è liberazione,» continuò il Buddha, «come vi è maturazione e caduta. È cessazione, non distruzione. È la danza che smette di chiedersi chi la danza.»
La banana fremette, come se potesse improvvisamente danzare la sua buccia via dal mondo.
«E c’è un sentiero,» disse il Buddha, e la sua voce era un fiume che strappava le pietre. «Otto passi che nessun piede deve compiere: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retti mezzi di vita, retto sforzo, retta consapevolezza, retta meditazione. Non servono gambe per seguirli, solo l’abbandono assoluto.»
La banana, allora, rise — una risata densa come il profumo che la circondava — perché comprese l’impossibile: che anche una banana può salvarsi, se smette di voler essere salvata.
Fu allora che il Buddha, senza violenza, senza desiderio, prese la banana tra le mani. E la sbucciò.
La banana gridò, un grido che era allo stesso tempo terrore e orgasmo, morte e nascita. Ogni fibra della sua dolcezza si riversò nell’aria, e il tempo si fermò per un istante a contemplare quella resa totale.
Poi il Buddha la portò alle labbra e la mangiò.
E in quell’atto assoluto — così scandaloso e così innocente — la banana fu redenta.
Perché chi nutre un Buddha, chi si dona a un Maestro senza calcolo né paura, si pone già — senza saperlo — sulla via della liberazione.
In quel gesto senza ritorno, la banana aveva iniziato l’estinzione del suo stesso Samsara. Non vi fu più differenza tra chi mangiava e chi era mangiato.
Nella polpa che si dissolveva nella bocca del Risvegliato, la banana conobbe la vera immortalità: non come permanenza, ma come amore talmente vasto da inghiottire se stesso.
Le bucce, svuotate di ogni nostalgia, vennero poi raccolte dal vento. Dicono che ancora oggi, nelle notti senza luna, si possano vedere svolazzare tra le fronde degli alberi, come piccole bandiere gialle che annunciano la libertà.
Egidio Francesco Cipriano
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