
In un mondo che troppo spesso veste la formalità come corazza, esistono luoghi dove l’atto di crescere e di celebrare i traguardi si intreccia con la leggerezza del gioco e la profondità dell’espressione personale.
Uno di questi luoghi è l’Università di Kyoto, nel cuore del Giappone, custode di una tradizione singolare e rivelatrice.
Ogni anno, durante la cerimonia di laurea, il campus si trasforma in un teatro a cielo aperto: gli studenti, anziché indossare tutti l’austero tocco nero e la toga, sono liberi di presentarsi vestiti come meglio credono.
Così, tra antichi ciliegi che sorvegliano silenziosi l’evento, si aggirano figure di ogni sorta: samurai dai costumi storici, personaggi di anime iconici come Naruto o Sailor Moon, repliche viventi di videogiochi come Final Fantasy o The Legend of Zelda; talvolta persino oggetti di uso quotidiano — scatole di ramen, bottiglie di tè verde, o addirittura cartelli stradali sorridenti.
Non è un capriccio improvvisato, né una ribellione anarchica: è il riflesso di una filosofia educativa che affonda le radici nella storia stessa dell’ateneo.
Fondata nel 1897, l’Università di Kyoto si è sempre distinta per uno spirito open-minded, in contrapposizione al più gerarchico e rigido modello di Tokyo.
Qui si respira un’aria diversa: una ricerca della verità e della creatività che richiama il pensiero di filosofi come Nishida Kitarō, uno dei padri della Scuola di Kyoto, che univa la profondità dello zen all’idealismo occidentale.
La direzione universitaria, pur invitando i laureandi a “vestirsi in modo consono”, lascia che sia la coscienza individuale a interpretare tale concetto.
Questo approccio incarna una raffinata forma di fiducia nella maturità degli studenti: un invito implicito a riflettere su chi si è diventati al termine di un lungo cammino formativo.
Kyoto Shimbun, storica testata locale, ogni anno racconta con fotoreportage vividi questa festa dell’identità: sfilano travestimenti ironici, poetici, surreali, in una galleria di maschere che — come nel teatro Nō — sono tutto fuorché menzogna.
Anzi, forse sono il contrario: uno specchio fedele di sogni, fatiche, ironie che ciascun laureato porta nel suo bagaglio di vita.
Viene da pensare, guardando queste scene, alle parole di Yukio Mishima, che nella sua opera Confessioni di una maschera scriveva:
“Indossare una maschera non significa nascondersi, ma spesso mostrare ciò che a volto nudo non si oserebbe dire.”
In fondo, l’atto di travestirsi diventa una piccola epifania collettiva: un rito di passaggio dove la serietà non è sacrificata, ma trasfigurata.
Il costume non banalizza il valore del titolo accademico: lo sublima, ricordando che ogni sapere, per essere autentico, deve rimanere radicato nell’essere umano concreto, libero di ridere, di immaginare, di rinnovarsi.
Mentre i flash dei curiosi e dei familiari immortalano Darth Vader che riceve la pergamena accanto a una delicata Principessa Mononoke, la tradizione di Kyoto ci suggerisce, sommessamente, una verità forse dimenticata: l’educazione non è soltanto conformità al sapere, ma anche celebrazione della propria unicità.
E questa, in un tempo di omologazione, è una rivoluzione silenziosa quanto necessaria.
Egidio Francesco Cipriano
Immagine generata da AI da prompt Articolo