Tra respiro e memoria
«La consapevolezza non è uno stato da raggiungere, ma una postura da abitare.»
Mi dissi questo molto tempo dopo, ma il primo seme era stato piantato a New York, in un autunno tiepido del 1992, tra i riflessi metallici dei grattacieli e il jazz che usciva da un locale in Bleecker Street. Avevo poco più di vent’anni e una valigia con più sogni che vestiti. Non cercavo la mindfulness, cercavo me stesso, senza sapere che, per trovarsi, a volte bisogna fermarsi ad ascoltare chi ci abita dentro.
I. New York, 1992 – La prima soglia
Avevo letto qualcosa di Jon Kabat-Zinn su un volantino lasciato in un piccolo negozio olistico dell’East Village. Diceva:
“Mindfulness-Based Stress Reduction – Free introductory session.”
Mi sembrava una promessa di tregua. E io, in quegli anni inquieti, avevo bisogno di tregua.
La sala era modesta, con un parquet scricchiolante e finestre che si affacciavano su un cortile. Un uomo con la voce calma come un lago in autunno ci accolse senza presentarsi come maestro. Disse solo:
«Respirate. Il corpo è qui. Voi siete qui. Questo è già tutto.»
Fu la prima volta che qualcuno mi invitò a non fare niente, e a chiamarlo pratica.
Ricordo ancora il suono del mio respiro come se fosse una scoperta nuova. Non era meditazione nel senso spirituale del termine. Era un esercizio di presenza, di contatto con ciò che normalmente evitiamo: il dolore, il fastidio, la confusione.
– E se non bastasse respirare?
– Non deve bastare. Deve solo cominciare.
Nei mesi successivi seguii il protocollo completo dell’MBSR. Fu lì che compresi l’eleganza della semplicità: otto settimane in cui il corpo diventava il luogo dell’ascolto, e il silenzio uno specchio paziente. La pratica del body scan, della meditazione seduta, della camminata consapevole erano strumenti laici, ma profondamente trasformativi.
II. Mindfulness come cura laica – Dalla medicina alla presenza
Il MBSR, sviluppato da Jon Kabat-Zinn alla fine degli anni ’70, nasce come programma ospedaliero presso la University of Massachusetts Medical Center, pensato per aiutare pazienti con dolore cronico, ansia, ipertensione, malattie autoimmuni. È una via laica alla consapevolezza, scevra da dogmi, ma ispirata alla tradizione buddhista theravāda.
Kabat-Zinn (1990) definisce la mindfulness come “la consapevolezza che emerge dal prestare attenzione, di proposito, al momento presente e in modo non giudicante.”
Negli ultimi trent’anni, oltre 6.000 studi scientifici hanno documentato l’efficacia della mindfulness nel:
- ridurre lo stress (Chiesa & Serretti, 2009),
- migliorare la regolazione emotiva (Hölzel et al., 2011),
- modulare le risposte dell’amigdala (Taren et al., 2015),
- rafforzare le funzioni esecutive (Zeidan et al., 2010),
- ridurre i sintomi depressivi (Goyal et al., 2014).
La pratica agisce sul cervello, rimodellandone le strutture attraverso la neuroplasticità. Ma ciò che più mi colpì, anche come futuro psicologo, fu la possibilità di trasformare il modo in cui si sta con il dolore – non eliminandolo, ma accogliendolo.
Eppure, nella mia esperienza successiva, capii che esisteva un altro livello. Il dolore, talvolta, non era mio.
III. Scinè– Il silenzio che scioglie l’io
Anni dopo, durante un soggiorno in Toscana , fui ospite di un monastero buddhista tibetano nei pressi di Pomaia. Partecipavo a un ritiro dedicato alla pratica dello scinè, la “calma dimorante”. Una forma di meditazione silenziosa, senza oggetto, in cui l’attenzione riposa sul respiro o su uno spazio neutro davanti agli occhi, lasciando emergere tutto ciò che si presenta senza attaccamento.
«Il respiro non è tuo. Ti attraversa. Non trattenerlo, non inseguirlo. Sii come la montagna che osserva il vento.»
Così disse il lama, con voce ferma.
Scinè non cerca risultati. È la sospensione del fare per accedere a una dimensione non duale. Diversamente dalla mindfulness occidentale, che lavora su stress e benessere psicofisico, qui si punta a dissolvere l’identificazione con l’ego. È una pratica soteriologica, orientata al risveglio.
Ma per me, allora, era soprattutto uno spazio di ascolto radicale. E fu in quel silenzio che iniziai a percepire qualcosa di più antico.
IV. Quando il silenzio è ereditato
Durante una seduta di costellazioni familiari anni dopo, una paziente scoppiò a piangere senza sapere perché. Disse:
«Quando sto in silenzio, sento un dolore che non è mio. È come se ci fosse una voce, ma non riesco a tradurla.»
Quel giorno mi tornò in mente una frase di Anne Ancelin Schützenberger, psicoterapeuta francese e fondatrice della psicogenealogia:
“Noi siamo più abitati di quanto pensiamo.”
Nella sua opera “La sindrome degli antenati” (1993), Schützenberger mostra come traumi non elaborati – lutti, esclusioni, aborti, vergogne familiari – possano attraversare le generazioni come fantasmi psicologici, depositandosi nel corpo e nella psiche dei discendenti. È il “romanzo familiare” non detto, che agisce nell’ombra.
Simili concetti sono ripresi da Nicolas Abraham e Maria Torok, con il loro concetto di “cripta” e “fantasma”, e da Mark Wolynn, autore di “It Didn’t Start with You”, che integra il sostegno psicologico con l’epigenetica.
Anche la scienza ha iniziato a esplorare queste dimensioni: studi sull’epigenetica transgenerazionale (Yehuda et al., 2016) hanno dimostrato che esperienze traumatiche, come la Shoah o la guerra, possono lasciare segni nei marcatori genetici dei figli e dei nipoti, influenzando la regolazione dello stress.
Ma allora, mi chiesi, cosa accade quando la mindfulness entra in questa eredità invisibile?
V. Verso una mindfulness transgenerazionale
Dopo anni di pratica e lavoro clinico, ho iniziato a delineare una proposta che chiamo “mindfulness transgenerazionale”. Si tratta di un approccio in cui la consapevolezza non si limita al qui e ora personale, ma si estende come una lente gentile su ciò che ci abita da prima di noi.
Principi chiave:
- Ascolto del corpo genealogico – portare consapevolezza alle emozioni che non trovano una narrazione, ai sintomi ricorrenti, alle dinamiche familiari ripetitive.
- Diario di eco-memorie – scrivere liberamente ciò che emerge durante la pratica, esplorando connessioni con eventi del passato familiare.
- Meditazione con i non-detti – una pratica in cui si accoglie simbolicamente la presenza di un antenato o di una figura familiare esclusa, non per dialogare, ma per testimoniarne la memoria.
- Integrazione in costellazioni e visualizzazioni – usare tecniche immaginative o di psicodramma consapevole per lasciare emergere ciò che la mente razionale rimuove.
Un paziente, dopo settimane di meditazione silenziosa, raccontò:
«Ho sognato mia madre da giovane. Mi guardava, ma senza aspettarsi nulla. E io mi sono sentito libero per la prima volta.»
Obiettivi di questa pratica:
- sciogliere le identificazioni inconsce con ruoli o dolori ancestrali;
- facilitare il perdono implicito, anche senza giustificazione razionale;
- sviluppare una compassione intergenerazionale;
- rendere il silenzio uno spazio abitato e non vuoto.
Questa forma di mindfulness non cerca la performance né la guarigione rapida. È una postura di ascolto lungo, come il respiro che si posa sulle pietre del tempo.
VI. La voce che non passa mai
Certe voci non passano mai, e va bene così. Non tutto ciò che ci attraversa va spiegato. Alcune memorie cercano solo uno spazio per respirare.
Durante una sera d’inverno, tornato a New York molti anni dopo, mi fermai davanti a una vetrina che rifletteva il mio volto. Pensai ai miei nonni, alle loro mani, alle loro scelte. Respirai.
E dentro quel respiro c’erano la meditazione, le neuroscienze, il karma, la carne, la memoria.
– Dove sei, ora?
– Nel respiro.
– E chi respira con te?
– Tutti quelli che sono venuti prima.
Egidio Francesco Cipriano
foto generata da AI da originale Egidio Francesco Cipriano