Il ghosting tra manipolazione narcisistica e fragilità generazionale
Si chiamava Gaia. Un nome che odorava di primavera e che lei amava scrivere con l’iniziale maiuscola anche nelle note vocali, quando si firmava col tono incantato delle attrici che non recitano più. Aveva un compagno, Luca, con cui condivideva un attico dai colori neutri, una caffettiera rossa e una gatta di nome Nebbia. Era tutto abbastanza perfetto, abbastanza tiepido, abbastanza noioso. Gaia, però, aveva fame. Non di sesso — quello era una conseguenza — ma di eco. Aveva bisogno di sentire rimbalzare la propria immagine negli occhi altrui, meglio se giovani, meglio se perdutamente presi. E quando lo erano, iniziava il gioco.
I social erano il suo salotto buono. Foto curate, storie “casualmente” profonde, frasi in bilico tra la mistica e il marketing emozionale. Due o tre cuori a settimana diventavano messaggi, poi inviti, poi lenzuola.
Con alcuni — come Marco e Filippo — la trama si era complicata. Erano diventati semi-fissi. Marco era un trentacinquenne con un talento per la poesia e l’abbandono; Filippo un grafico con la voce impastata e gli occhi sempre un po’ stanchi. Gaia li teneva in un limbo affettivo calibrato: mai troppo, mai niente. Dava abbastanza da restare irrinunciabile, poi spariva come l’ultima sigaretta nella notte. Verso giugno, ogni anno, si apriva la stagione dell’evaporazione. Gaia si dedicava a sé, a Luca, ai tramonti fotografabili. Marco e Filippo venivano spenti come se nulla fosse in portacenere mai svuotato, un’archivio emotivo da cui cogliere ricordi spenti di vita mai veramente vissuta. Nessuna spiegazione, nessun addio.
Conversazione WhatsApp – Inizio Ghosting, giugno
Marco:
Ehi… tutto bene? Non ti sento da giorni.
Gaia (visualizzato, nessuna risposta)
Filippo:
Gaia? Che succede? Ho fatto qualcosa?
Gaia (visualizzato, nessuna risposta)
Tre mesi. Nessun contatto. Nessuna traccia. Gaia tornava a sé, come un animale che cambia pelle.
Poi arrivava l’autunno.
Conversazione WhatsApp – Ritorno, settembre
Gaia (a Marco, 23:48):
Ti ho pensato tanto quest’estate. Ma avevo bisogno di silenzio. Di me. Sei ancora lì?
Marco:
Tre mesi di niente. Nemmeno un “ciao”. Perché adesso?
Gaia:
Perché adesso ho spazio. E sento che con te non era finita.
Gaia (a Filippo, 01:16):
Ho sognato che mi abbracciavi sotto la pioggia. E ridevo come non ridevo da tempo. Ti va di vederci?
Filippo:
Ho pianto per te. E tu ti sei dissolta.
Gaia:
Non riesco a spiegarti. Ma qualcosa mi dice che dobbiamo riprenderci da dove ci siamo lasciati. Anche se non lo abbiamo mai fatto davvero.
In realtà, Gaia non amava nessuno. Neanche sé stessa. Ma in quell’eco continuo, in quella danza intermittente di apparizioni e sparizioni, sentiva di esistere. Almeno per un po’.
Il ghosting non è silenzio. È un messaggio.
Il ghosting non è semplicemente una sparizione. È un atto relazionale che parla più delle parole stesse. Dice: “Tu non meriti una spiegazione. Non valgo il disagio di confrontarmi con te. E soprattutto, posso sparire quando voglio.”
Nel caso dei narcisisti patologici, il ghosting è un’arma affilata, fredda e silenziosa. Non viene usata per mancanza di coraggio, ma per manipolazione. Serve a punire, a destabilizzare, a creare dipendenza. Dopo una fase iniziale di attenzione estrema e idealizzazione, il narcisista taglia ogni contatto senza preavviso. Non perché non provi più nulla, ma perché l’altro ha osato desiderare reciprocità, o ha smesso di essere utile al proprio ego.
Sparire all’improvviso equivale a dire: “Io sono il centro. Tu sei accessorio.”
E quando riappare — perché spesso riappare — lo fa in modo ambiguo, seduttivo, quasi poetico. Il ritorno non è mai una riparazione, ma l’inizio di un nuovo ciclo tossico.
Chi subisce ghosting da un narcisista entra in un vortice di confusione: cerca risposte, si autoaccusa, idealizza chi l’ha abbandonato, attende un messaggio che non arriva. È un processo che corrode lentamente l’autostima e la capacità di fidarsi. Non c’è chiusura, non c’è saluto, non c’è rispetto. Solo un vuoto che fa rumore.
Una generazione che disconnette invece di concludere
Eppure il ghosting non appartiene solo al lessico dei manipolatori. Oggi è diventato una prassi diffusa, quasi normalizzata, tra adolescenti e post-adolescenti. In questo caso, non c’è malizia, ma una profonda difficoltà relazionale.
La cultura digitale ha abbassato la soglia di responsabilità affettiva. In un mondo dove ogni conversazione può essere archiviata con uno swipe, anche le persone diventano contenuti da scrollare. Appena subentra il disagio, l’ambiguità, la noia o la paura dell’impegno, la soluzione più comoda diventa il silenzio.
Il confronto diretto, la parola che chiude, l’onestà emotiva vengono sostituite da una sparizione che non ferma solo la relazione, ma anche la crescita emotiva di chi la mette in atto. Perché imparare a dire “non sento più lo stesso”, “non sono pronto”, “non voglio andare oltre”, significa prendersi cura dell’altro, ma anche di sé stessi. Chi fa ghosting, invece, disconnette: da chi ha di fronte e dalla propria maturità relazionale.
Questo comportamento, ripetuto, alimenta una cultura del distacco facile, della superficialità emotiva, dell’evitamento. E lascia dietro di sé una scia di giovani (e adulti) sempre più disillusi, sfiduciati, incapaci di fidarsi davvero.
Ritrovare il coraggio di dire addio
C’è una responsabilità che dobbiamo riaffermare: quella di esserci anche quando vogliamo andare via. Non si tratta di promettere amori eterni, ma di imparare a chiudere con dignità. Dire la verità, anche se scomoda, è un atto di civiltà relazionale.
Sparire, invece, è disertare l’umanità dell’altro.
Per questo, educare alle relazioni non può prescindere dall’educare anche alla fine delle relazioni. A dire no, a dire basta, a spiegare senza distruggere. Solo così possiamo ricostruire uno spazio dove la fiducia, il rispetto e la parola possano ancora valere qualcosa.
Il ghosting non è mai neutro. È una scelta che lascia tracce. Ma possiamo decidere, come adulti, educatori, terapeuti, amici, di abitare lo spazio del commiato con la stessa intensità con cui abitiamo quello dell’incontro.
In fondo, il modo in cui andiamo via dice molto di come siamo stati. E soprattutto, di come potremmo essere.
Egidio Francesco Cipriano
illustrazione Egidio Francesco Cipriano