Appuntamento (quasi settimanale) con la violenza: ora appare anche una scritta che incita all’odio verso il Presidente del Consiglio
Si sa: la protesta e il dissenso sono due elementi fondamentali in una democrazia. Come architravi, fungono sistematicamente da anticorpi, mostrando che esiste un gioco di leve: da un lato la presenza dello Stato, dall’altro la risposta — in questo caso intollerabile — dei collettivi. E così, il 2025 non poteva che cominciare con il botto. Avevamo assistito al caso Ramy e alla totale devastazione di un quartiere messo a ferro e fuoco: il Corvetto di Milano. Numerosi agenti erano stati feriti, e nei dibattiti televisivi si discuteva di una legge per tutelarli penalmente, evitando che fossero indagati nel corso delle azioni di repressione.
Mentre si discute di questi sistemi, si bolla come antidemocratico il processo repressivo (ricordando che in uno Stato di diritto è d’obbligo tutelare l’ordine civile), ma non la causa scatenante, che è anzi quasi appoggiata da una certa parte politica. Gli attacchi del corteo pro-Palestina di Milano hanno toccato il fondo più volte: l’ultimo episodio riguarda uno striscione carico di odio contro il Presidente del Consiglio. Un atto deliberato e intenzionale, che ha provocato la ferma condanna del sindaco Sala e il silenzio di molti esponenti della sinistra italiana.
Se da un lato l’art. 17 della Costituzione garantisce il diritto di riunione, questo deve avvenire in forma pacifica e senza armi, con obbligo di preavviso per quelle in luogo pubblico. Prima nota dolente per i collettivi, che in più occasioni hanno organizzato proteste non pacifiche, con lanci di oggetti e fumogeni. Se l’art. 21 della Costituzione garantisce il diritto al libero pensiero e alla libera espressione, questo non può trasformarsi in messaggi d’odio o nella giustificazione di atti violenti e intimidatori. L’art. 52, inoltre, stabilisce che la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino, implicando il rispetto delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Gli atti di queste manifestazioni — spesso, ma non sempre, violente — possono avere anche rilevanza penale.
Gli scontri alla Sapienza degli scorsi anni, le interruzioni di convegni organizzati da associazioni ritenute ostili dai collettivi rappresentano, oggi come ieri, una mela marcia in un sistema di diritto. Il clima che si respira è pesante e volto all’intimidazione del libero pensiero, dove il dibattito lascia spazio alla violenza, verbale e fisica. Il tema della popolazione palestinese è stato strumentalizzato a piacimento da certe proteste, anche quando non era attinente al contesto trattato. E così, spesso, si mescola tutto in un pentolone senza alcun filo logico. Se da un lato è evidente, agli occhi dell’opinione pubblica, il massacro di un popolo e le ripetute violazioni del diritto internazionale da parte dello Stato di Israele, dall’altro una valida ragione di protesta non può e non deve tramutarsi in violenza.