Tra tradizione e spiritualità, il viaggio interiore dei confratelli nel cuore della città
di Maria Lucia Simeone
Sotto il cappuccio bianco che vela il volto, c’è il battito sommesso di un’intera comunità che si fa rito. I “perdòni” di Taranto – così vengono chiamati i confratelli che attraversano la città nei giorni sacri della Settimana Santa – non camminano: procedono. Lentamente, come se il tempo si fosse fatto liquido, sospeso tra fede e memoria, tra il passo della penitenza e il battito delle ore che, per una volta, non corrono.
Vestiti con l’abito tradizionale – camice, mozzetta e guanti, con rosari pendenti e medaglie tintinnanti – i confratelli delle arciconfraternite del Carmine– i carméli e i décor – e dell’Addolorata, si muovono in coppia, “a poste”. Le spalle si sfiorano, le braccia si toccano: non per sostegno, ma per appartenenza. In quel contatto vi è la forza del cammino condiviso, la preghiera che si fa corpo, il gesto antico che attraversa i secoli.

Il ritmo lento, scandito dai “nazzicamenti” – quei movimenti ondulatori del corpo che sembrano una danza sacra – accompagna un viaggio intimo, silenzioso, spesso segnato dalle lacrime che restano nascoste sotto il cappuccio. Ogni passo è un’offerta, ogni sosta una meditazione, ogni sguardo – invisibile ma presente – è rivolto all’anima.
I “perdòni” attraversano Taranto in un silenzio carico di senso. E la città si ferma. Le strade diventano vie della Passione, gli occhi si fanno specchi di emozione. Non importa chi tu sia, da dove vieni, se credi o meno: davanti a quel bianco lento che avanza, non puoi che restare in ascolto. Perché sotto ogni cappuccio c’è una storia, un voto, una speranza. Un perdono chiesto o concesso.

È il mistero della Settimana Santa tarantina: un rito collettivo e profondamente personale. Un cammino che, ogni anno, torna a raccontare la fragilità e la forza dell’essere umano. Sempre spalla a spalla. Sempre insieme. Sempre con il cuore esposto, anche quando il volto è coperto.
“Quando indosso quel cappuccio, non sono più solo io. Sono mio padre, mio nonno, tutta la mia famiglia che ha camminato prima di me. È come tornare bambini e adulti insieme, davanti a Dio”, racconta Giuseppe (questo e gli altri seguenti sono nomi di fantasia), confratello del Carmine da oltre vent’anni.
C’è chi ha scelto questo cammino dopo un dolore, come Antonio, confratello décor: “Per me è stato un modo per ricominciare. Dopo la perdita di mia madre, mi sono avvicinato alla confraternita. Il primo anno, sotto il cappuccio, ho pianto tutto il tempo. Non riuscivo a fermarmi. Ma era un pianto che guariva”.
Anche tra i più giovani, la voce è carica di consapevolezza. “Io non riesco a spiegare perché lo faccio. So solo che, quando cammino, sento di essere nel posto giusto”, dice Michele, 23 anni, alla sua terza uscita. “Con il compagno di poste non parli, ma ti capisci. Siete un respiro solo. Quando uno inciampa, l’altro lo sente”.
Il compagno di poste non è solo una figura accanto. È la tua guida silenziosa. Spalla contro spalla, braccio contro braccio, si procede come in un corpo solo. Non serve parlare. C’è un codice tra di voi fatto di respiri e piccoli spostamenti. “Lui sa tutto, anche se non mi vede in faccia. Sa se ho bisogno di rallentare, se sto piangendo, se ho paura”, racconta Michele, 26 anni, alla sua quarta uscita.
La tradizione dei riti non è folclore. È radice. È la storia che torna ogni anno a bussare, chiedendo di essere onorata, vissuta, trasmessa. “Siamo anelli di una catena antica, e ogni anno ci viene affidato il compito di non spezzarla”, dice Mario, confratello da oltre quarant’anni.
I riti non sono solo religione. Sono cultura, identità, appartenenza. Sono il modo in cui una comunità si guarda allo specchio e si dice: noi siamo anche questo. I confratelli, nel loro silenzio, parlano per tutti. Danno voce alle preghiere inespresse, ai dolori senza nome, ai ricordi che nessuno vuole perdere.
E così, anno dopo anno, Taranto continua a camminare. In silenzio. Insieme.