
Tra forchette che spiano e cucchiai che rubano l’anima
La trattoria aveva un nome impossibile da ricordare, un misto di dialetto e francese antico, come se fosse cresciuta su una piega sbagliata della mappa. Era il posto perfetto: tovaglie di cotone sbiadite, sedie che cigolavano come lamentele stanche, bicchieri tutti diversi — alcuni alti e filiformi, altri bassi e panciuti — come gli ospiti di un banchetto che si erano dimenticati chi fosse il padrone di casa.
Lei arrivò prima, con i capelli raccolti in una treccia che sembrava fatta da mani pazienti e occhi che luccicavano, ma non per ingenuità: era una sciamana seria, immersa nel suo sapere come in un lago profondo. Quando lui entrò, portava ancora addosso l’odore lieve della carta — lo psicologo rigoroso, collezionista di sogni mai confessati. Il suo sorriso era timido, ma gli occhi tradivano un’antica abitudine a perdersi in mondi invisibili.
Si sedettero l’uno di fronte all’altra, studiandosi come due esploratori che, pur avendo mappe diverse, riconoscono lo stesso continente.
— Qui ogni posata spia — disse lei, sollevando una forchetta storta, che sembrava sbirciare dalla parte sbagliata del tavolo.
— Non fidarti dei cucchiai — rispose lui serio, abbassando la voce. — Sono capaci di rubarti l’anima mentre mescoli il caffè.
Risero piano, come si ride quando il mondo potrebbe ancora essere magico.
Il cibo arrivò fumante: polpette che sapevano di casa, verdure saltate in un olio così sincero che pareva raccontare la storia degli ulivi da cui proveniva. Mangiavano lentamente, come chi sa che a volte si inghiotte più di quello che si vede: ricordi, rimpianti, sogni acerbi.
A un certo punto, l’odore del sugo e del pane tostato si confuse per lei con un altro profumo: quello della casa della zia, una donna minuta e indomita che aveva cresciuto alberi di limoni in un cortile di terra arida. Gli occhi della sciamana si velarono un istante.
— La zia… — disse a mezza voce. Poi abbassò ancora il tono, come chi custodisce un segreto più antico della propria nascita. — Era anche una biologa. Ma non si diceva. Era come avere un’altra lingua dentro, che parlava alle piante e rideva degli esperimenti.
Lo psicologo, incuriosito, inclinò la testa. Non per analizzare, ma per ascoltare come si ascolta un campanello lontano nella nebbia.
Il pranzo finì troppo in fretta, come finiscono le estati, e allora si scambiarono doni. Lei gli porse un sacchetto di tela grezza: dentro, una piccola campanella tibetana, incisa con simboli che sembravano voler uscire e raccontare storie. Lui, invece, le lasciò tra le mani un libretto sgualcito: “Il disagio della civiltà” di Freud, con le prime pagine piene di annotazioni a matita e qualche frase cerchiata con rabbia.
— Per ricordarti che la civiltà è uno splendido errore — disse, con un lampo divertito negli occhi.
Lei rise, una risata piena, che odorava di boschi dopo la pioggia.
Uscirono insieme dalla trattoria. Il sole scioglieva l’aria come burro su una fetta di pane caldo. I bicchieri irregolari e le posate ficcanaso restarono lì, a vegliare su quel piccolo scambio di magie.
Si salutarono senza fretta, sapendo che il vero dono non era né nella campanella né nel libro, ma nell’avere trovato, per un’ora sola, qualcuno che sapesse vedere l’invisibile nell’altro.
Quando lui si voltò a guardarla un’ultima volta, lei non c’era più.
Solo il suono leggero di una campanella lontana, mescolato al vento.
Egidio Francesco Cipriano
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