
C’è un momento in cui il dolore diventa più reale del denaro. Quando un genitore si inginocchia davanti a una farmacia chiusa con una prescrizione urgente in tasca, o quando una pensionata, tra il riscaldamento e la pastiglia per la pressione, sceglie il primo. In quel momento, la macroeconomia smette di essere un grafico e diventa carne, ossa, sangue. E allora, quando un presidente americano firma un ordine esecutivo che promette un taglio fino al 90% sui prezzi dei farmaci, il riflesso immediato è quello della speranza. Ma, come sempre, ogni luce proietta un’ombra. E in questa ombra ci siamo noi, italiani, europei, e soprattutto cittadini.
La “cura Trump”: un taglio che taglia altrove
Donald Trump è tornato. Con la consueta retorica muscolare e una logica da negoziatore spietato, ha dichiarato guerra ai prezzi “gonfiati” dei farmaci in America. L’ordine esecutivo punta a un taglio medio del 59% sui farmaci rimborsati da Medicare e Medicaid. Il meccanismo? Una clausola “Most Favored Nation”, che impone alle case farmaceutiche di applicare agli Stati Uniti il prezzo più basso concesso a qualsiasi Paese OCSE. Apparentemente, una misura giusta. Perché un farmaco che costa 10 euro in Germania dovrebbe costarne 80 negli Stati Uniti? Ma dietro questa giustizia apparente si cela un riequilibrio che potrebbe rivelarsi profondamente iniquo.
Se le aziende dovranno compensare i minori guadagni sul mercato americano, dove andranno a cercare i profitti perduti? Dove non ci sono leggi a protezione del prezzo massimo. Dove la sanità pubblica è già sotto pressione. Dove i bilanci statali negoziano ogni anno il diritto alla salute con i conti che non tornano.
Sì, da noi. In Europa. In Italia.
Il paradosso del benessere: pagare di più per la stessa cura
Nel medio termine, se il provvedimento MFN entrerà in vigore e sarà applicato con rigore, l’effetto più probabile sarà un innalzamento generalizzato dei prezzi dei farmaci nei Paesi che oggi trattano prezzi bassi: in testa l’Italia, notoriamente abile nella contrattazione nazionale dei listini. Secondo alcune prime azzardate proiezioni, in uno scenario estremo potremmo arrivare a pagare fino al 163% in più per certi farmaci oncologici o biologici salvavita. Non è solo un’ipotesi da laboratorio: è una variabile che potrebbe decidere se un paziente con un cancro raro potrà accedere o meno a una terapia innovativa. Il cittadino italiano, che già paga con le sue tasse un sistema sanitario che tenta disperatamente di restare universale, rischia così di trovarsi in una terra di mezzo: troppo ricco per ricevere sussidi, troppo povero per permettersi tutto. E, come spesso accade, i più fragili saranno i primi a sentire il colpo. Gli anziani soli, i cronici, le famiglie numerose, i malati rari.
Il mito del farmaco come diritto e la realtà della geopolitica
Trump gioca una partita più ampia. È la stessa che si combatte con la NATO, con i dazi sull’alluminio, con la guerra tecnologica con la Cina. Gli Stati Uniti accusano l’Europa di “sfruttare” l’economia americana: i Paesi UE – dice la Casa Bianca – negoziano prezzi artificialmente bassi grazie a sistemi pubblici, ma beneficiano dell’innovazione pagata dagli americani. Non è del tutto falso. Gli USA finanziano una parte sproporzionata della ricerca farmacologica mondiale, e lo fanno in un mercato senza calmieri. Le aziende investono lì perché lì guadagnano.
Ma se si rompe questo equilibrio – instabile ma reale – la conseguenza può essere un contraccolpo globale. Non solo in termini di costi: anche in termini di innovazione. Se i profitti calano, calerà anche la ricerca (quella del profitto s’intende). E ciò che oggi è un nuovo farmaco contro l’Alzheimer, domani potrebbe restare un’idea incompiuta in un laboratorio sottodimensionato nella misura in cui non può generare fatturato, perché la salute nella realtà dei fatti non è un diritto ma dipende dal profitto e dal denaro.
Il cittadino tra speculazione e resistenza
Che cosa possiamo fare noi? Poco, forse. Ma quel poco conta.
Possiamo pretendere che il nostro governo non accetti passivamente un aumento dei prezzi. Che rafforzi l’AIFA, che negozi con forza, che si allei con altri Paesi. Possiamo vigilare sul fatto che il SSN non riduca ancora una volta le terapie gratuite per motivi “di sostenibilità”, mascherando l’ineguaglianza dietro il linguaggio asettico della spesa pubblica.
Possiamo, come psicologi, medici, educatori, ricordare che la salute è un diritto, non una merce. E che se diventa una merce, allora siamo tutti clienti di un mercato dove il prezzo della vita non lo decide la scienza, ma l’economia. Ma lo è forse da tempo già diventata ?
Infine, possiamo raccontare. Raccontare che dietro ogni farmaco c’è una storia. Di dolore, di resistenza, di speranza. Raccontare che quando il prezzo della cura diventa il prezzo della rinuncia, non stiamo solo perdendo un farmaco: stiamo perdendo l’idea stessa di una società che si prende cura dei suoi membri.
E forse, nel raccontarlo, possiamo ancora fare la differenza.
Egidio Francesco Cipriano
Foto di Gerd Altmann da Pixabay