
Tra le mani di chi costruisce ponti
C’è qualcosa che accade nel silenzio prima delle parole. Lo sguardo che precede il gesto, la pausa che accompagna la consapevolezza di trovarsi dinanzi a un momento raro, quasi simbolico, che supera le cronache e si incide nel vissuto collettivo come un sigillo. Così, lunedì 19 maggio 2025, nella Sala Clementina del Vaticano, è accaduto qualcosa che va oltre il cerimoniale. Papa Leone XIV ha accolto, tra gli altri, Geshe Dorjee Wangchuk e la Ven. Elena Seishin Viviani, Vicepresidente dell’Unione Buddhista Italiana.
Non un semplice incontro diplomatico, ma un gesto antico e futuro: l’incontro tra mondi che si rispettano. Lì, dove un Papa accoglie un monaco tibetano e una monaca zen, qualcosa si trasforma nella coscienza comune. Non c’è solo il dialogo tra fedi, c’è la testimonianza di una possibilità che ci riguarda tutti: vivere accanto senza annullarci, dialogare senza confonderci, rispettarci senza doverci somigliare.
Il ponte non è solo struttura: è intenzione
Papa Leone XIV ha pronunciato parole semplici e necessarie: “Dobbiamo liberarci da ogni ideologia che si opponga all’incontro.” Ha ricordato come il vero cammino interreligioso sia fatto di cura, ascolto, coscienza. Non solo tolleranza, che a volte puzza di sopportazione, ma collaborazione vera, sforzo condiviso per la pace, che non è assenza di guerra ma presenza di giustizia.
Il monaco tibetano e la monaca zen non hanno portato con sé soltanto il Buddhismo: hanno portato una storia di meditazione, non violenza, compassione. Hanno offerto il silenzio come spazio fertile e il vuoto come promessa di pienezza. Incontrandosi, queste presenze hanno svelato che il dialogo interreligioso non è una parentesi spirituale per specialisti, ma un orizzonte educativo per tutti.
Educare al dialogo: una responsabilità comune
Chi insegna, lo sa: il cuore di un adolescente è un campo da seminare, non da recintare. Parlare di pace, di convivenza, di pluralismo, non è un vezzo, ma una responsabilità pedagogica. Gli studenti non imparano a rispettare il diverso leggendo definizioni, ma osservando modelli, esempi, gesti concreti.
Così, ciò che è accaduto in Vaticano riguarda la scuola, l’educazione civica, l’insegnamento della religione, ma anche e soprattutto il nostro modo di abitare il mondo come adulti. Non possiamo chiedere ai giovani di dialogare se noi ci barrichiamo nelle nostre certezze.
Dal rito al simbolo: una visione transreligiosa
L’incontro del 19 maggio non è stato un sincretismo, né una celebrazione folkloristica. È stato un passo transreligioso: ogni fede mantenendo la propria forma, ma riconoscendo una comune sorgente. Come acqua che scorre da fonti diverse ma tende allo stesso mare, così le parole del Papa e quelle dei rappresentanti buddhisti hanno evocato una dimensione condivisa: la dignità umana, la compassione, la cura del mondo.
E in questa visione transreligiosa, si può intravedere anche un richiamo alla psicologia profonda: l’incontro tra figure archetipiche – il pontefice, il monaco, la monaca – che non sono solo individui ma simboli. Simboli di ciò che potremmo essere se scegliessimo la via della consapevolezza invece di quella del dominio. Se educassimo al sentire prima ancora che al sapere.
Un seme per il futuro
Nel tempo del riarmo, della polarizzazione e dell’odio travestito da ideologia, l’abbraccio tra spiritualità diverse diventa atto politico nel senso più nobile: costruire polis, tessere comunità e non tele e trapple. È un seme fragile, certo. Ma ogni foresta nasce da un seme. La scuola, le famiglie, le istituzioni civili e religiose, hanno il compito oggi di innaffiare quel seme.
E se un giorno nostro figlio o un nostro alunno, diventato adulto, ricorderà che un Papa ha accolto con rispetto un monaco buddhista, forse capirà che il mondo può essere abitato senza distruggere l’altro. Forse comprenderà che la pace non è un’utopia, ma una grammatica da apprendere fin dai banchi di scuola.
Egidio Francesco Cipriano
Foto Vatican media