“As Is”: essere senza condizione

Non sono un insegnante perché qualcuno mi chiama Maestro. Non sono un padre perché un figlio mi chiama Papà. Non sono una persona perché vengo riconosciuto come tale.
Sono.
Viviamo spesso nella trappola del riconoscimento. Come se lo sguardo dell’altro fosse l’unico specchio legittimo per riflettere chi siamo. Ci adattiamo, ci modelliamo, ci spezziamo perfino, pur di ricevere un cenno, una carezza verbale, un’identità di ritorno. Ma chi saremmo se togliessimo il riflesso? Se smettessimo di cercare l’eco nelle stanze altrui per sentire il suono della nostra voce?
Da bambini, ci viene insegnato — a volte con tenerezza, a volte con violenza — che valiamo se corrispondiamo. Se diciamo grazie, se stiamo composti, se piacciamo. Inizia lì il primo tradimento. Cominciamo a costruire una versione di noi stessi che possa sopravvivere nella giungla delle aspettative. Ed è così che, giorno dopo giorno, diventiamo genitori per bisogno di riscatto, insegnanti per desiderio di stima, terapeuti per lenire ferite mai riconosciute.
Ma poi accade qualcosa. Un momento di silenzio improvviso. Un dolore che non cerca più spiegazioni. Una gioia che non chiede permesso. Accade che ci ritroviamo presenti. Senza sforzo. Senza bisogno di testimoni.
È lì che inizia il vero insegnamento: quando non si insegna più nulla. È lì che nasce la paternità: quando non si pretende nulla in cambio. È lì che la persona smette di essere un concetto sociale e si fa esperienza viva.
Essere “as is” — così come si è — è uno stato sovversivo. Sovversivo perché non si lascia amministrare. Non cerca approvazione. Non si piega alle lusinghe del compiacimento né al disprezzo travestito da giudizio. È la presenza nuda. La nuda verità di sé. Senza orpelli, senza hashtag, senza curriculum. È l’anima che respira nel corpo, non per ricevere attenzione, ma per onorare il battito che ancora la tiene qui.
Spesso mi chiedono: “Ma come si fa a sapere chi si è, senza l’altro?”
E la risposta — se così si può chiamare — non è mai una formula. È una discesa. Una sottrazione. Si fa silenzio, si rinuncia alla recita, si resta. E qualcosa inizia a parlare, senza parole.Una presenza che non ha bisogno di definirsi perché non è in lotta con il mondo. È.
Essere “as is” non significa essere impermeabili all’amore o alla relazione. Anzi. È lì che nasce la vera intimità. Quando l’altro non è più uno specchio da cui dipendere, ma una finestra attraverso cui condividere il cielo.Amare senza voler cambiare, educare senza voler formare, curare senza voler guarire. Solo essere. Insieme. Due presenze che si sfiorano nel vuoto sacro dell’autenticità.
E allora non sono insegnante, ma il gesto che accoglie. Non sono padre, ma la carezza che lascia andare. Non sono persona, ma l’esserci che si dona.
Perché il vero riconoscimento non ha pubblico. Avviene nel silenzio. Quando, finalmente, smettiamo di cercarci altrove.
E ci troviamo qui.
Così come siamo.
Egidio Francesco Cipriano
Foto Cataldo Cipriano