
Era il 1996.
Come spesso accadeva, ero a New York. Quell’anno mio fratello Massimiliano affrontava un intervento chirurgico al St. Barnabas Hospital, nel Bronx. Gli avrebbero impiantato un neurostimolatore spinale per aiutarlo a coordinare i movimenti, compromessi da una paralisi cerebrale infantile.
New York era la nostra seconda casa fin dall’8 dicembre 1986, quando al New York University Medical Center il dottor Nicholas Tzimas gli salvò la vita. Io, poco più che diciottenne, imparavo a camminare tra le strade e i sogni americani, diventando qualcosa di nuovo — ma con un cuore sempre apolide, ovunque e in nessun luogo.
Era maggio. L’aria sapeva di benzina e gelsomino, come solo nelle mattine di Manhattan, e io cercavo pause tra le vite, tra gli ospedali e la nostalgia. E fu lì, in uno di quei giorni sospesi, che la incontrai.
Stava tenendo un piccolo talk sull’amore, in piedi su un marciapiede liscio come marmo, tra le due torri del World Trade Center. Parlava senza microfono, ma la sua voce si sentiva anche nei polsi. Portava guanti bianchi, un cappello color avorio e un abito color sabbia che odorava di cipria. L’età non le aveva tolto nulla: era elegante, composta, magnetica. Un volto che sembrava uscito da un film degli anni ’50. E, in effetti, lo era.
“Si ama davvero solo chi si ha il coraggio di vedere crollare. Solo chi si può amare anche mentre cade.”
Mi fermai. Non per interesse, ma per timidezza. Quando non sai dove andare, è il cuore che decide. Alla fine, come se sapesse che la stavo guardando da tempo, venne verso di me e disse:
— Lei ha fame. Ma non di cibo.
Io, ventotto anni, scrittore in erba, timido prossimo psicologo, non trovai nulla da dire. Mi limitai ad annuire.
— La invito a colazione. Ma sarà lei a scegliere il posto.
Prima colazione – L’amore come assenza
Ci sedemmo in un cafè francese su Fulton Street. Lei ordinò caffè nero e una brioche, io un cappuccino che non sapeva d’Italia.
— Come si chiama?
— Egidio.
— Bel nome antico. E cosa fa, Egidio?
— Studio psicologia. Scrivo. O almeno ci provo.
Lei rise. Era un suono grave, ironico, caldo.
— Io recitavo. A Hollywood. Poi ho smesso. A un certo punto, o si resta sul palco o si impara a vivere. Ho scelto la seconda.
— E l’amore? Chiesi. Lei fece una pausa.
— L’amore è assenza. Inizia dove manca qualcosa. Non si ama mai per ciò che si ha. Si ama per ciò che si perde, si teme o non si sa.
Mi guardò.
— Lei ha già perso qualcosa, Egidio. E sta cercando di capirlo con la testa, ma l’amore si capisce solo col corpo.
— Non ho mai amato.
— Peggio: pensa di non averlo fatto.
Poi prese un foglio dalla borsa. Una foto in bianco e nero.
— Questo era mio marito. Morì nel ’67. Non l’ho mai lasciato andare. Ma ho imparato ad amarlo anche da morto. L’amore è anche imparare a vivere coi fantasmi.
Seconda colazione – L’amore come memoria
Tre giorni dopo, era di nuovo lì. Mi aspettava.
— Il secondo appuntamento lo decido io, disse. C’è una pasticceria armena sulla 6th Avenue.
Entrammo. Ordinò dolcetti al pistacchio e una limonata calda. Io seguii.
— Sa cosa mi ha colpito di lei? Che non ha paura del silenzio.
— Forse perché ne ho fatto casa, dissi. O forse perché non ho ancora parole vere.
Lei sorrise. Aveva mani fragili, vene trasparenti, ma gesti precisi.
— Quando amavo da ragazza, pensavo che l’amore fosse tutto presente. Adesso so che è memoria. Se non lascia traccia, non è mai stato amore.
— E se non comincia mai?
— Allora ci inventiamo un passato. Sogniamo di aver amato per sentirci vivi.
Mi porse una scatolina con dentro un biglietto. “Il cuore ha occhi più lenti della mente, ma vede meglio.”
— Lo tenga. Ma non lo apra subito. Un giorno saprà quando.
Terza colazione – L’amore come pazienza
Una settimana dopo. Massimiliano stava meglio. Lei era seduta su una panchina, leggendo Rilke.
— Oggi niente parole, disse. Solo pane tostato e silenzio.
Mangiammo lentamente. Sentivo che era un addio, ma non doloroso. Più una soglia.
Alla fine parlò:
— L’amore non arriva quando siamo pronti, ma quando siamo stanchi di aspettare. Quando impariamo a vivere senza, allora si presenta. E non sempre si fa riconoscere subito.
— Come lei.
Lei mi guardò con tenerezza.
— Forse. O forse sono solo un sogno che il suo cuore ha fatto per prepararsi a quello vero.
Poi si alzò. Non ci fu saluto. Solo un cenno, come fanno gli attori alla fine di una scena.
6 novembre 1998
Non la rividi mai più. Non so se fosse reale, simbolica, un’apparizione o un testimone. Ma il 6 novembre 1998 conobbi l’amore. Quello vero. E il suo profumo sapeva di brioche, carta antica e silenzio.
Era la colazione che avevo aspettato tutta la vita.
Egidio Francesco Cipriano
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