
L’amore che ci prende in ostaggio
Era il 1973 quando in una banca di Stoccolma un uomo armato prese in ostaggio quattro persone. Chiese che venisse liberato un suo vecchio complice, un criminale già noto, abile a confondere carisma e violenza: Clark Olofsson. Quella richiesta fu accolta, e Clark entrò nella banca non da nemico, ma da ospite. Da allora, per sei giorni, una ragazza — Kristin — e altri tre impiegati vissero chiusi nel caveau, minacciati eppure solidali con i loro carcerieri. Quando tutto finì, accadde qualcosa che lasciò i poliziotti perplessi: gli ostaggi non volevano testimoniare contro Clark. Anzi, lo difendevano. Dicevano che la vera paura era per la polizia. Dicevano di essersi affezionati. Da quel paradosso nacque la “sindrome di Stoccolma”. Ma ciò che definiamo “sindrome” è, in fondo, una risposta d’amore primordiale. Un meccanismo arcaico, disorientante, eppure umano: se non posso fuggire dal lupo, allora meglio abbracciarlo.
Un volto, molti nomi
Clark Olofsson è morto da poco. Aveva 78 anni. Se ne è andato da vecchio, in un ospedale svedese. La sua vita era una fiumana di evasioni, rapine, condanne e amori — perché sì, Clark aveva anche numerose donne che lo attendevano, che lo inseguivano, che lo desideravano. Alcune di queste, forse, sapevano bene chi fosse. Altre — come spesso accade — avevano costruito un altro Clark, interno, immaginato, curativo. Ma era sempre lo stesso Clark a fare breccia: l’uomo che guarda negli occhi e promette la luna con mani sporche di furto. Una degli ostaggi disse una frase che resta scolpita nel tempo:
“Non ci ha fatto nulla. Anzi… ci siamo anche divertiti.”
Come se l’orrore fosse stato sbiancato da un sorriso, da una carezza a metà, da un tono di voce. È il trucco antico del predatore che sa vestirsi d’angelo quando il cuore della preda è già ferito.
Una stanza, un legame
Ogni psicologo lo sa: non serve un sequestro per far nascere un legame tossico. Basta una stanza emotiva chiusa, una storia che non si può lasciare. E un protagonista inafferrabile, spesso narcisista, che alterna promesse e punizioni, amore e gelo. Il codipendente resta lì, come l’impiegata della banca. Sente di non poter fuggire. Ma sente anche che l’unico modo per sopravvivere è amare. Anche quando amare significa distruggersi. Il narcisista patologico maligno è maestro in questo. Ti prende, ti osserva, ti avvolge. Poi sparisce, poi ritorna. Ti fa sentire speciale solo per renderti dipendente da quella sensazione. E quando cerchi di andartene, sa come trasformarti nel colpevole. Come Clark con la sua pistola invisibile: quella del bisogno.
“Giulia e l’uomo dal sorriso rotto”
Giulia ha 41 anni. È entrata nel mio studio con il viso composto e una domanda che non era una domanda:
“È normale che senta la sua mancanza anche se mi ha distrutta?”
Lui — lo chiameremo Fabio — l’aveva tradita ripetutamente, umiliata, isolata dagli amici. Le diceva che era speciale, ma anche che era pazza. Le regalava rose il giorno dopo averla lasciata sola per un weekend. Giulia parlava di lui come Kristin parlava di Clark.
“Con lui mi sentivo viva. Mi sembrava di essere vista per la prima volta.”
Aveva smesso di dormire. Si svegliava con la sua voce in testa. Lo difendeva, anche davanti allo psicologo.
“Ha avuto un’infanzia difficile… non è cattivo, è ferito.”
Ma più raccontava, più appariva chiaro: Giulia era diventata prigioniera. E non dei gesti, ma della speranza. Le dissi, in una seduta:
“A volte, il nostro cuore resta in ostaggio perché ha conosciuto il rapimento prima ancora di sapere cos’è l’amore.”
Quel giorno pianse. Per la prima volta non per lui. Ma per sé. Per la bambina che era stata.
Trauma bonding, secondo Judith Herman
Judith Herman, nel suo testo classico “Trauma and Recovery”, descrive questi legami come “forme di attaccamento traumatico” in cui la vittima diventa dipendente da chi la domina. È una risposta psico-neurobiologica alla paura, alla deprivazione, e al bisogno disperato di protezione. In modo analogo, Patrick Carnes ha definito il trauma bonding come una relazione patologica alimentata da cicli ripetuti di abuso, colpa e momentanei sollievi, che rinforzano l’attaccamento. Ogni gesto affettuoso del narcisista diventa una “ricompensa” imprevedibile, che mantiene vivo il legame.
Il mito della salvezza reciproca
Come Clark, anche il narcisista spesso chiede una sola cosa: “Liberami, portami via da qui, tu sola puoi farlo.” È l’inganno del salvatore. Un sequestro a due, in cui chi ama non è libero, ma si illude di poter liberare l’altro. Come se una chiave d’oro bastasse per aprire una prigione di cemento. Chi resta invischiato in questo amore di ombre non capisce più se è ostaggio o carceriere. Si colpevolizza. Si abitua al dolore, lo chiama passione. Ma sotto, profondo, il cuore sa che quella relazione è una replica di una vecchia ferita. Spesso paterna, antica, infantile.
Clark non è morto
Clark Olofsson è morto, sì. Ma Clark vive ancora in molte relazioni in cui una persona seduce con potere e ambiguità. Dove la paura diventa attrazione. Dove l’amore è un recinto. Dove ci si diverte, ma non si respira. L’ostaggio affettivo non è codardo. È solo qualcuno che ha imparato che amare significa adattarsi. Che non ha mai conosciuto un amore stabile. Che si sente vivo solo nel rischio. Che confonde la tensione con l’intensità. Ma può guarire. A patto che smetta di giustificare il sequestratore. A patto che riconosca la trappola anche quando ha il volto del “ti amo”.
Come uscirne: suggerimenti per chi ama un carceriere emotivo
1. Riconosci la dinamica
Se giustifichi ciò che ti ferisce, chiediti: mi sto proteggendo o sto negando? La consapevolezza è il primo passo.
2. Affidati a uno psicologo esperto di trauma e narcisismo
La terapia non è solo ascolto, è ri-educazione all’amore sicuro.
3. Interrompi i contatti (No Contact)
Ogni messaggio, anche il più piccolo, può riattivare il circuito di dipendenza affettiva.
4. Lavora sul trauma originario
Spesso non è lui/lei il problema, ma ciò che rappresenta. Il narcisista è il volto recente di un dolore antico.
5. Crea alleanze sane
Circondati di chi ti vede senza manipolarti. Anche una sola persona che ti ascolta può fare da argine.
6. Non aspettare che cambi
Come scrive Judith Herman: “La guarigione inizia quando la vittima smette di aspettarsi che l’abusante si trasformi.”
Post Scriptum
Kristin Enmark, l’ostaggio che difese Clark, dichiarò anni dopo:
“Ho avuto paura… ma di perdere quello che stavamo condividendo.”
Questa è la frase che resta. La più inquietante. Perché dimostra che ciò che lega vittima e carnefice non è solo la paura, ma il bisogno disperato di significato. E quando nella tua vita nessuno ti ha mai fatto sentire importante, anche un rapitore può sembrare l’unico che ti guarda davvero. Ma non è amore. È un’illusione nata nella prigione del cuore.
Egidio Francesco Cipriano