Il cielo sotto il mantra: New York, settembre 2001, e un mala tra le nuvole

7 settembre 2001.
Certe date si scrivono da sole nella carne della memoria. Ma il 7 settembre non è ancora l’11. È un prologo. È la quiete instabile prima della catastrofe. È la mia storia con un mala tra le mani e una preghiera automatica che non distingueva più tra il sacro e il disperato, tra il personale e l’universale.
Eravamo in volo per New York. Un volo qualsiasi. O così pareva. Mio fratello Massimiliano, inchiodato da una paralisi cerebrale che rendeva l’economia di certi sedili una trappola crudele, viaggiava con me in business class. La figlia del pilota era seduta a sette passi da noi. Il cielo sopra il Labrador si stava stringendo. L’aereo cominciò a tremare, oscillare, sussultare. Ma non era una turbolenza qualunque: era qualcosa che non va, che tutti intuiscono, che nessuno dice.
Il pilota lasciò la cabina. Il pilota uscì.
E la sua uniforme si sciolse in un gesto antichissimo: si inginocchiò e abbracciò sua figlia. Un uomo che sa ciò che potrebbe venire. Il corpo della bambina tremava, e il mio cuore con lei.
Io più abituato alle turbolenze dell’anima che a quelle dell’aria, misi una mano nel borsello e trovai il mio mala. 108 grani, 108 respiri sospesi. Non pensai. Fu il mala a pensare per me.
Le sillabe del Powa – il trasferimento della coscienza al momento della morte – scorrevano dentro di me, come l’acqua in un tubo bucato. Non ero io a recitare. Era la paura che si faceva forma sonora, ordine, grazia possibile.
“Om Amitabha Hrih…
Per me.
Per Massimiliano
Per la figlia del pilota.
Per l’intero aereo.
Per chi pregava, non sapendo a chi rivolgersi.”
Non avevamo ancora imparato il suono del terrore globale, quello vero, che si sarebbe inciso quattro giorni dopo nel nome delle Torri. Ma lì, nel piccolo dramma a tremila metri, ognuno di noi cercava un Dio, un mantra, un appiglio. Chi con l’Ave Maria. Chi col silenzio. Chi, come me, con quel gesto che da fuori sembra un tic – far scorrere grani tra le dita – ma dentro è un’ancora ontologica, una mappa per uscire dalla mente quando la mente vacilla.
Il japamala: grani di coscienza tra le mani
Quello non era solo un oggetto. Era un compagno di viaggio, una specie di terapeuta silenzioso. Il japamala, in sanscrito, è una “ghirlanda di ripetizione”. Un rosario orientale. Un mandala da toccare.
Nel Vajrayāna tibetano – quello che qualcuno chiama Mantrayāna – i mantra non si ripetono per devozione cieca. Si ripetono per risvegliare ciò che dorme. Ogni grano è un piccolo portale. Ogni sillaba è una medicina per i veleni interiori. E nel mezzo della tempesta, quel piccolo strumento di legno era più utile di qualsiasi manuale d’emergenza.
Il Mantra che viene da sé
C’è una cosa che i maestri tibetani non ti dicono subito, ma che impari sulla pelle: quando il mantra ti scorre senza che tu lo voglia, allora sei pronto. Non pronto per la morte, magari. Ma pronto per lasciarti attraversare, per diventare canale.
Quella volta, i mantra del Powa scorrevano da soli. Non ero più io a recitare. Come se il cervello limbico si fosse arreso e avesse lasciato il timone al cuore. Come se il suono sacro avesse preso possesso del mio corpo, e io fossi diventato strumento invece che suonatore.
Perché pregano tutti, quando l’aereo trema?
Bella domanda, no?
Ateismo, laicismo, cinismo – tutto sparisce quando il carrello d’atterraggio non scende o il motore perde colpi. Pregano i razionalisti, pregano gli astrologi, pregano anche quelli che non sanno di pregare. Si chiamano genitori, figli, nomi dimenticati. Si chiedono segni. Pregano per controllare l’incontrollabile, per dire “non sono solo”, per ricordare che qualcosa, da qualche parte, potrebbe ancora amarci.
Io non so chi ascoltasse, quel giorno. So solo che il mantra era la mia via di mezzo tra il panico e la pace.
Il mala come oggetto transizionale
Winnicott avrebbe sorriso. Quel mala era per me ciò che il pupazzetto è per il bambino: un ponte tra il conosciuto e l’ignoto, tra la madre e il mondo. Ogni grano era un momento. Una persona.
Massimiliano, che mi guardava con i suoi occhi immobili ma lucidissimi. La bimba, stretta a un padre che per poco non la perse.
E me stesso, un uomo che gioca a fare lo psicologo, ma che quella volta si aggrappava a un pezzo di legno come fosse il cuore stesso del Buddha.
Atterraggio. Mani giunte.
Il powa non fu necessario.
Non ci fu morte.
Solo un tremore in più nei polsi, un silenzio lungo in aeroporto, e un grazie sussurrato tra i denti.
Atterrammo al JFK. Gelo nell’animo e morbido asfalto. E quella consapevolezza, sottile ma definitiva, che l’unica cosa che possiamo imparare a fare sul serio è morire bene. Ma nel frattempo, possiamo recitare.
Coda poetica (o comica):
Dopo l’atterraggio, il pilota ci offrì un tè.
“Offerto dalla compagnia?” chiesi.
“No, da mia moglie. Dice che i mantra fanno venire sete.”
E aveva ragione.
Ma se avessi dovuto scegliere un’ultima bevanda, sarebbe stato quel tè, sul Labrador, con in mano il mala, e con la consapevolezza che ogni grano recitato è una vita non vana – magari la tua.
Egidio Francesco Cipriano