Il denaro non è più tuo. Quando lo depositi, cambia nome.

E forse anche anima.
Un tempo, i contadini conservavano le monete in un fazzoletto annodato. Le nascondevano sotto una pietra del camino, dietro una trave del fienile, tra le pagine di un libro sacro. Erano poche, ma erano loro. Tangibili. Potevano toccarle, contarle, farle suonare come piccoli campanelli di sicurezza. Ogni moneta aveva un volto, un peso, un suono.
Oggi quel gesto si è fatto invisibile. Premi un tasto, scorri uno schermo, vedi apparire dei numeri. 4.392,17 euro. Non ne senti l’odore, non sai dove siano. Eppure ti rassicurano. Ti fanno sentire padrone di qualcosa. Ricco, forse. Sicuro, almeno.
Ma quella sicurezza è un’illusione. Perché appena quei soldi entrano in banca, non sono più tuoi.
Non è una metafora. È la legge.
L’articolo dimenticato
Pochi lo sanno, pochissimi lo capiscono. Ma il Codice Civile italiano, con una chiarezza che suona quasi spietata, all’articolo 1834, dice:
“Nei depositi di una somma di denaro presso una banca, la banca acquista la proprietà della somma e assume l’obbligo di restituirla nella stessa specie monetaria.”
In parole nude: tu non possiedi più quel denaro. Ne sei solo creditore.
Come se tu l’avessi prestato alla banca. Non è più un tuo bene, è un suo debito verso di te. E questo debito, per quanto sembri garantito da schermate luminose e sportelli in marmo, può non essere restituito. Non immediatamente. Non integralmente. E, in alcuni casi, mai più.
Il tradimento silenzioso del possesso
Immagina: hai risparmiato per anni. Hai fatto rinunce. Hai versato ogni centesimo in banca. E ora credi, sinceramente, che quei soldi siano al sicuro. In realtà, sono entrati nel corpo della banca, come sangue che si confonde con quello di un altro organismo. Non li puoi più distinguere. Non sono separati, non sono custoditi con il tuo nome sopra. La banca non è un caveau personale. È un sistema che assorbe il denaro, lo usa, lo investe, lo presta ad altri. Tu, con quel deposito, hai firmato un contratto di fiducia. Non te ne sei accorto, forse, ma è successo: hai abbandonato la proprietà per una promessa.
Simbolo e potere: il denaro come parte del Sé
Il denaro non è mai solo denaro. È simbolo. È trasferimento del sé in forma numerica. È la somma invisibile delle nostre fatiche, dei nostri amori non vissuti, delle vacanze mai fatte, dei regali rimandati, degli affetti sostenuti, delle bollette pagate col nodo in gola. È il nostro tempo condensato. Per questo ci fa paura perderlo. Perché sentiamo che stiamo perdendo una parte di noi stessi.
Quando diciamo “ho perso dei soldi”, raramente intendiamo una cifra. Stiamo parlando di autostima, possibilità, sopravvivenza, controllo. E allora capiamo che il denaro non è oggetto. È relazione.
Relazione con il potere, con l’infanzia, con l’abbandono, con la madre che non dava abbastanza o con il padre che dava solo attraverso il denaro. Nel sostegno psicologico, a volte, una discussione sul denaro apre voragini profonde. Perché è lì che si annida la nostra vera paura: non quella di diventare poveri, ma quella di non contare più niente.
La banca come figura archetipica
In questa dinamica si inserisce la banca. Che da semplice istituzione si trasforma, psicologicamente, in archetipo materno: luogo che accoglie e protegge, ma anche che decide. A volte è madre benevola, altre volte è matrigna. Può restituire il latte, ma anche negarlo. Può stringere la mano, ma anche chiuderla. Quando affidiamo a lei il nostro denaro, le affidiamo la nostra speranza. E come ogni madre ambivalente, può rassicurare o tradire. Non è un caso che i momenti di crisi bancaria generino panico collettivo: crolla una madre simbolica. Crolla il legame invisibile che ci faceva sentire vivi, presenti, in diritto di chiedere.
Il valore della fiducia, il rischio dell’oblio
Viviamo in un’epoca in cui la fiducia è data per scontata. Abbiamo account, login, PIN, IBAN, carte, app. Crediamo che tutto sia nostro, solo perché porta il nostro nome. Ma il denaro – e con esso, ogni diritto connesso – vive dentro regole che pochi conoscono e meno ancora comprendono. E se un giorno lo chiedessimo indietro, e non ci fosse più?
Se scoprissimo che non è nostro, come non lo era la voce che chiedeva amore da bambini e riceveva solo silenzio? In fondo, il conto corrente è un patto simbolico. Un contratto fra noi e un sistema invisibile. Un atto di fede in un mondo che può tradirci con un clic. Eppure, continuiamo a crederci. Perché l’alternativa sarebbe troppo dura da guardare.
Le illusioni che restano
“Ho 40.000 euro in banca.”
“No, hai un credito da 40.000 euro verso un ente privato che, in certe condizioni, potrebbe non darti nulla.”
Lo diresti a un bambino che i suoi risparmi nel salvadanaio non sono suoi? Lo diresti a te stesso, la sera, mentre cerchi sicurezza in uno schermo blu che ti dice che il denaro c’è? Forse no. Perché la verità spaventa.Eppure, la verità è anche libertà. Sapere che nulla è veramente nostro, che tutto è transito e promessa, può aprirci a un altro tipo di relazione col denaro. Non più possesso, ma consapevolezza. Non più bisogno di controllo, ma capacità di lasciar andare. Forse il vero valore non sta nei numeri, ma in ciò che decidiamo di fare prima che quei numeri svaniscano.
Egidio Francesco Cipriano
Note (per chi vuol sapere davvero)
- Articolo 1834 Codice Civile: la banca diventa proprietaria del denaro depositato; il cliente ha solo un diritto di credito.
- Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD): garantisce solo i primi 100.000 euro per depositante e per banca aderente. Sopra quella soglia, il rischio è tuo.
- Se la banca fallisce, sei un creditore chirografario: cioè in coda. E potresti non rivedere nulla.
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