Il disarmo sottile delle parole

A volte le parole non servono.
Non perché manchi qualcosa da dire, ma perché abbiamo già detto troppo. O troppo in fretta. O con le mani chiuse, anziché aperte. C’è un punto nei dialoghi — specie in quelli più importanti, più carichi d’amore e di aspettativa — in cui parlare diventa una forma raffinata di difesa. Una trincea fonetica. Un modo elegante per non toccare l’altro, e soprattutto per non farsi toccare.
Capita così: una frase esce dalla bocca e si pianta nell’altro come una scheggia. Magari non era neanche ciò che volevamo dire, ma era ciò che in quel momento ci sembrava l’unico modo per non restare nudi. Ci capita di difenderci parlando, di nasconderci affermando. Di costruire con le parole non un ponte, ma un muro.
Eppure lo sentiamo, subito dopo. Una fitta sottile che arriva dopo aver colpito. Un fastidio che si somma a quello che pensavamo di evitare. Perché anche quando abbiamo ragione, se feriamo, qualcosa dentro si incrina. E non è debolezza: è memoria. È la parte viva di noi che ancora sa che amare non è vincere, ma disarmarsi.
C’è qualcosa che potremmo imparare a fare prima di rispondere: respirare.
Semplice, ma non banale. Respirare prima di replicare. Prima di difenderci. Prima di spiegare. Perché, a volte, le spiegazioni sono soltanto elaborazioni del dolore. E ciò che cura davvero non è la logica, ma la presenza. Un ascolto sincero, spoglio di strategie.
Succede, infatti, che nel cuore del conflitto, tra uno sguardo abbassato e una frase sospesa, appaia uno spiraglio. Un vuoto. Un campo fragile e fertile insieme, dove l’altro non è più nemico, ma specchio. E dove ci rendiamo conto che l’urto non nasce dall’odio, ma dalla paura. Che la rigidità era solo un modo per proteggere la tenerezza.
E allora qualcosa cambia. Non tanto nei contenuti, ma nella qualità del contatto.
Il tono si abbassa. Il battito si sincronizza. L’altro non è più da correggere, ma da comprendere. E comprendere non significa giustificare. Significa riconoscere l’umano in ciò che ci ha feriti. Vedere la fatica dietro le parole storte, il bisogno sotto le accuse, la solitudine in ogni silenzio tagliente.
Ecco perché il silenzio — quello vero, non quello punitivo — può essere una cura.
Un silenzio che non fugge, ma resta. Che non punisce, ma contiene. Che non si chiude, ma respira. Un silenzio che si avvicina alla verità non dicendola, ma sentendola insieme. Come una carezza invisibile, come una mano poggiata sull’anima senza pretendere di sistemarla.
Siamo abituati a parlare per chiarire, ma forse dovremmo imparare a stare per guarire.
Ad accettare che certe domande restino aperte, che certe ferite non si chiudano con una frase, ma con il tempo. Con la fiducia. Con la delicatezza.
Perché in fondo, ogni volta che ci feriamo a parole, ciò che chiediamo è:
“Mi vedi davvero?”
“Posso mostrarmi così come sono, senza difendermi?”
“Può il tuo amore restare, anche se tremo?”
E se, in quel momento, riusciamo a non reagire, ma a restare, allora sì: abbiamo smesso di combattere.
Non perché non ci siano conflitti.
Ma perché abbiamo scelto di non usarli contro chi amiamo.
Egidio Francesco Cipriano
Foto di lisa runnels da Pixabay