
Harvard, 1962. Una seduta di psilocibina. Un futuro cancellato prima di sbocciare.
Racconto semi fantasioso su fatti realmente accaduti
Il sole di ottobre colava obliquo sulle vetrate della Memorial Hall. Lì dentro, nell’ombra che sapeva di carta vecchia e legno umido, John incrociò per la prima volta lo sguardo calmo di Timothy Leary. Aveva ventitré anni, una borsa di studio e un dolore segreto incastrato fra lo sterno e i sogni. Non lo diceva a nessuno. Lo nascondeva sotto pile di testi di psicologia sperimentale, dietro sorrisi educati e risposte da brillante allievo. Da quando il fratello maggiore era scomparso nella nebbia del Nebraska, un giorno del ’57, John si era fatto muto dentro. Non per tristezza, ma per una specie di gelo. Una domanda non detta: perché?
Quella mattina, aveva firmato un modulo. Tre pagine. Scritte fitte. “Studio sugli effetti della psilocibina in soggetti sani”. C’era un medico, c’era uno psicologo, c’era anche un monaco zen che non parlava quasi mai. E poi c’era la sostanza: una capsula piccola, come quelle contro l’influenza. Ma quella pillola era un seme. E John, anche se non lo sapeva, stava per germogliare.
Lo accompagnarono in una stanza chiara, con tappeti orientali, candele, libri disposti come in un altare e una poltrona color porpora. Una musica classica fluiva leggera da un giradischi. Mahler, forse. Qualcuno gli sorrise. “Chiudi gli occhi, ascolta il tuo respiro, lascia che accada.”
Il primo pensiero fu suo padre. L’odore del suo dopobarba e il tintinnio del ghiaccio nel bicchiere. Poi un campo di grano. Ma non visto, sentito. I gambi sfioravano la pelle interna delle sue braccia. Il tempo si fece curvo, lento. La mente, che fino a quel momento era stata un tunnel di concetti e di definizioni, diventò una cupola luminosa.
Vide la madre da giovane. Vide se stesso in fasce, ma non era un ricordo: era una verità rivelata. Vide anche il fratello. Era scalzo. Sorrideva. Non c’era bisogno di parole. C’era solo uno spazio colmo di perdono. Sentì amore. Non quello romantico, ma un amore che univa il sangue alla terra. Un amore che riconnetteva ciò che era stato separato. E pianse. Pianse come non faceva da bambino. Gli scesero lacrime dai lati del viso, silenziose, calde. In quella stanza senza tempo, il dolore aveva finalmente trovato un linguaggio.
Poi, come in un sogno lucido, il corpo tornò ad avere peso. La luce filtrava dalla finestra come miele denso. Alla fine della seduta, si stese sul tappeto. Timothy Leary prese appunti con una calligrafia minuscola. Il monaco zen annuì, come se tutto fosse andato secondo la volontà del vuoto. Qualcuno gli offrì una tazza di tè.
Quella notte, John non dormì. Ma non per agitazione. Rimase sveglio ad ascoltare il rumore del proprio sangue. Avvertiva dentro una nuova musica, una forma sottile di coscienza che non aveva nome. Il giorno dopo scrisse cinque pagine nel suo diario. Parole che non aveva mai usato. Archetipi, lacrime, rinascita.
Ma la primavera durò poco.
Due mesi dopo, la stampa montò un caso. LSD, psilocibina, droghe tra gli studenti. Leary fu accusato di corruzione della gioventù. Richard Alpert, suo collega, fu espulso dall’ateneo. Il progetto venne chiuso. Gli scaffali svuotati. Le cartelle cliniche archiviate sotto la parola pericoloso. Harvard cancellò il suo esperimento più visionario.
John riprese i suoi studi, ma qualcosa in lui si era incrinato. Non per colpa della sostanza. Ma per ciò che gli avevano tolto dopo: l’accesso, la continuità, la possibilità di comprendere. Aveva assaporato il cuore dell’esistenza e ora nessuno gliene parlava più. Si sentiva come chi ha visto un angelo e poi viene mandato in una città senz’anima.
Smise di cercare. Si laureò. Insegnò psicologia. Aveva una moglie, due figli, e ogni tanto, quando li guardava dormire, sentiva quella musica tornare. Mahler. E la madre da giovane. E il campo di grano. Gli amici lo consideravano un uomo solido. Ma dentro di lui viveva una piccola fenditura. Una crepa dolce, come un ricordo profondo che non vuole passare.
Solo nel 2006, leggendo un articolo su un nuovo studio della Johns Hopkins, sentì qualcosa vibrare. “Psilocibina in contesto clinico per il trattamento della depressione”. Un nome, Roland Griffiths, lo riportò all’universo che aveva sfiorato. In quella sera di autunno, davanti al camino acceso, John pianse di nuovo. Ma questa volta era gratitudine. Come se qualcuno, dopo decenni, gli stesse finalmente dicendo: avevi ragione a sentire così. Avevi ragione a ricordare.
Allora capì: il viaggio non era finito. Solo interrotto. E chi viaggia davvero, prima o poi riprende il cammino. A volte, bastano quarantasei anni. A volte, una vita intera. Ma quel campo di grano, dentro di lui, non aveva mai smesso di crescere.
Egidio Francesco Cipriano
Note dell’autore
John è un personaggio di finzione, costruito per incarnare l’esperienza di molti studenti e giovani ricercatori che parteciparono alle sedute sperimentali con psilocibina a Harvard nei primi anni ’60. Non rappresenta una persona reale, ma è un “testimone narrativo” che permette al lettore di entrare nell’atmosfera di quel periodo, nel trauma privato e nel risveglio spirituale interrotto dalla repressione politico-accademica dei tempi.
Note bibliografiche
- Carhart-Harris, R. L., et al. (2014). “The entropic brain: a theory of conscious states informed by neuroimaging research with psychedelic drugs.” Frontiers in Human Neuroscience.
- Griffiths, R. R., et al. (2006). “Psilocybin can occasion mystical-type experiences having substantial and sustained personal meaning and spiritual significance.” Psychopharmacology.
- Leary, T. (1966). The Psychedelic Experience: A Manual Based on the Tibetan Book of the Dead.
- Lattin, D. (2010). The Harvard Psychedelic Club.