
La guerra come respiro primordiale
Ogni civiltà ha il suo battito. Ma c’è un ritmo sordo e costante che attraversa le epoche, un tamburo invisibile che scuote le notti dell’umanità. Quel tamburo è la guerra. Non una parentesi nella storia, ma la sua colonna vertebrale. Non un errore, ma una ricorrenza. Come le maree, come i cicli lunari, come il sangue che sale al viso quando la paura si mescola al desiderio. La guerra è l’eco remota di un urlo arcaico che ancora oggi vibra nei notiziari, nei salotti, nei pixel del terrore in alta definizione.
La guerra ci abita, prima ancora di abitare il mondo. Le prime tribù si affrontavano non solo per la sopravvivenza, ma per affermare un ordine simbolico. Il nemico era l’altro, ma anche un riflesso deformato del sé. Colpirlo, dominarlo, significava rafforzare la propria identità. La guerra come iniziazione, rito di passaggio, danza sciamanica fatta di ferite e grida. Lo sciamano versava sangue per dare forma all’invisibile, e il guerriero per dargli un confine.
Nelle pitture rupestri troviamo già scene di caccia che si confondono con l’aggressione. Nella costruzione delle prime città, il bisogno di mura precede quello di piazze. Come se, prima di incontrarsi, l’uomo avesse bisogno di difendersi. Come se l’apertura all’altro fosse sempre, in fondo, una resa.
La guerra è un linguaggio. Come la musica, come il sogno, come il sesso. Parla al corpo, prima che alla mente. Investe l’istinto, lo accende, lo droga. E ogni generazione impara la grammatica dell’odio con la stessa naturalezza con cui apprende a camminare. Non perché sia giusto. Ma perché è scritto nelle vene della storia.
Gli dei della guerra: archetipi mai dismessi
Gli antichi lo sapevano: la guerra è sacra. Non nel senso morale, ma in quello originario: separata, potente, numinosa. Marte, Ares, Enyo, Indra, Sekhmet, Huitzilopochtli. Ogni pantheon ha il suo guerriero. Non come antagonista, ma come parte necessaria dell’ordine cosmico. Persino gli dei della pace riconoscono la funzione purificatrice del conflitto.
Questi dei non sono scomparsi. Si sono riciclati. Oggi si incarnano in capi carismatici, in generali sorridenti, in tecnocrati della sicurezza. Non portano più spade, ma trattati. Parlano il linguaggio della diplomazia, ma agiscono con la stessa impassibilità degli antichi: sacrificando vite per ristabilire equilibri.
Il nuovo tempio della guerra è il palazzo del potere, lo studio televisivo, il social network. Gli dei hanno nuovi volti: marketing, controllo, sorveglianza, fake news. Ma il sacrificio è lo stesso: carne giovane, sangue fresco, popoli interi ridotti a statistiche.
E la gente, ogni volta, si lascia sedurre. Perché c’è qualcosa di seducente nella guerra. Una chiarezza primitiva. Un senso di scopo che la pace non offre. Quando c’è un nemico, tutto diventa più semplice: si sa chi odiare, chi difendere, chi essere. La guerra offre identità preconfezionate. E noi, a volte stanchi di scegliere, le indossiamo.
Economia bellica: l’industria dell’inferno
Ogni bomba ha un prezzo. Ogni soldato è un investimento. Ogni guerra un mercato. Ogni cadavere un dividendo. Non lo dicono nei telegiornali, ma lo scrivono nei bilanci.
La teoria economica non è cieca davanti a questo. La guerra genera produzione, spinge la ricerca tecnologica, crea occupazione. Negli anni ’30, gli Stati Uniti uscivano dalla Grande Depressione. Fu la Seconda Guerra Mondiale a rilanciare il sistema industriale. Non è un caso che da allora il complesso militare-industriale – che Eisenhower chiamava con timore profetico – sia diventato una forza autonoma, quasi sovrana.
Lockheed Martin, Raytheon, BAE Systems. Nomi meno evocativi di Marte o Ares, ma con poteri altrettanto mitologici. Ogni conflitto contemporaneo è anche un’esposizione universale d’armi, un evento promozionale per nuove tecnologie: droni, missili ipersonici, intelligenza artificiale applicata alla letalità. Ogni crisi è un’opportunità. Ogni orrore un potenziale di crescita.
La guerra non è solo evento. È struttura. Catena di montaggio. Sistema nervoso di un capitalismo che si nutre di instabilità. E chi pensa che le guerre siano dettate solo dalla politica o dalla religione, finge di non vedere le firme in calce ai contratti. Gli appalti che precedono gli spari. I lotti di munizioni stampati prima dei comunicati stampa.
La guerra nel sangue: genealogia dell’aggressività
Siamo programmati alla guerra? La biologia evoluzionistica lo suggerisce. Alcuni studiosi parlano di selezione del conflitto: i gruppi più aggressivi avrebbero prevalso su quelli più pacifici, lasciando in eredità alle generazioni future una maggiore propensione allo scontro.
Ma c’è anche chi dissente. Chi osserva come la cooperazione sia stata decisiva per la sopravvivenza umana. La verità, forse, è che siamo animali ambivalenti. Con una capacità estrema di amare e un’eguale capacità di distruggere. Ed è proprio in questa tensione che nasce la guerra: come fallimento dell’empatia, come sconfitta della compassione. Come un grido che non abbiamo mai imparato a trasformare in parola.
Forse la guerra è un trauma transgenerazionale. Una memoria impressa nel DNA. Una trasmissione epigenetica del dolore. Un’eredità tossica che si riattiva sotto stress, sotto propaganda, sotto la bandiera giusta.
Le verità taciute: complottismo e fatti
Esistono cospirazioni? Sì. Alcune diventano pubbliche dopo decenni. Il Golfo del Tonchino, le armi di distruzione di massa in Iraq, le operazioni Gladio. La storia recente è un palinsesto dove le versioni ufficiali vengono regolarmente riscritte. Dove gli archivi sono templi del silenzio, e il vero arriva sempre troppo tardi.
Il problema non è il complottismo, ma l’ingenuità. Credere che tutto sia chiaro, trasparente, visibile. La realtà è opaca. Stratificata. In parte vera, in parte allucinata. Alcune guerre nascono davvero per difesa. Altre per destabilizzare, vendere, colonizzare. A volte, tutto insieme.
E chi urla contro le “cabale” spesso non sbaglia nel sospettare, ma nel generalizzare. C’è un fondo di verità in ogni paranoia: non perché tutto sia vero, ma perché qualcosa lo è. E quel qualcosa basta a riscrivere interi manuali di storia. Le teorie del complotto sono le fiabe oscure di un’epoca senza miti. Ma a volte, tra simboli e codici, emerge una verità che nessuna democrazia ama guardare in faccia.
La guerra interiore: la battaglia dentro di noi
Non ci sono solo le guerre tra Stati. Ci sono le guerre in famiglia, nei corridoi scolastici, negli uffici. Microguerre quotidiane, fatte di sarcasmo, indifferenza, controllo, manipolazione. Ogni volta che neghiamo l’altro, lo rendiamo nemico. Ogni volta che non ascoltiamo, creiamo distanza. Ogni volta che temiamo, attacchiamo.
Forse la guerra è solo la forma estrema di una disfunzione più profonda: l’incapacità di stare con l’altro senza difendersi. L’incapacità di accogliere il conflitto come crescita, anziché come annientamento. La guerra è un riflesso dell’inquietudine che ci corrode. Uno specchio oscuro in cui vediamo il nostro volto più feroce.
E se l’uomo trovasse la pace nel cuore?
Immagina. Immagina che l’essere umano, un giorno, trovi riposo dentro di sé. Che si accorga che la vera rivoluzione non è cambiare il mondo, ma lo sguardo con cui lo si guarda.
Immagina un’educazione fondata su quattro pilastri interiori. I buddhisti li chiamano i Quattro Incommensurabili. Noi potremmo tradurli così:
- Amorevole gentilezza: la capacità di volere il bene dell’altro senza possederlo.
- Compassione: l’arte di sentire con, non sopra, con la dimensione del movimento verso l’altro.
- Gioia compartecipe: rallegrarsi per la felicità altrui, senza invidia.
- Equanimità: la serenità che nasce dalla visione profonda, non dall’indifferenza.
Se li occidentaliziamo, diventano virtù civiche e psicologiche. Diventano empatia, intelligenza emotiva, cooperazione, leadership etica. Non sono idee mistiche. Sono strumenti pratici, scalabili, insegnabili.
Forse, se un giorno costruissimo scuole che coltivano questi semi, se premiassimo la gentilezza invece della competitività, se raccontassimo storie diverse ai bambini… forse allora i generali resterebbero senza eserciti.
Forse un giorno, non si vergognerà più chi parla piano. Chi piange. Chi ascolta. Forse la pace non sarà più un lusso da poeti, ma una necessità da costruttori.
E quel dio antico, la guerra, scenderebbe finalmente dal suo altare.
Stanco, dimenticato, disarmato.
E noi, finalmente, potremmo imparare a vivere.
Non in pace.
Ma nella verità dell’incontro.
Egidio Francesco Cipriano
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