La Repubblica non è gratis. E nemmeno la Democrazia

Oggi è il 2 giugno, festa della Repubblica. Sventolano bandiere, passano le Frecce Tricolori sopra i Fori Imperiali, la solennità sembra intatta. Ma nel cuore — nel cuore vero di questo Paese — qualcosa si è spento. Oppure si sta spegnendo. E non è solo colpa della crisi, della sanità allo stremo, dell’economia che scivola come sabbia tra le dita. È colpa nostra, di tutti noi. Di quello che non ricordiamo più. Di quello che, peggio ancora, diamo per scontato.
La Repubblica Italiana nasce nel 1946, sulle rovine della guerra e della dittatura, da un voto popolare che per la prima volta vide le donne entrare nelle urne. È nata dal sangue, dai corpi lasciati nei fossi, dalle lettere scritte prima di morire, da chi ha creduto che la libertà valesse più della propria vita. Da chi ha studiato, letto, discusso nei caffè e nei circoli, sotto le bombe, con il freddo addosso e la fame nello stomaco. La democrazia non ci è caduta dal cielo: è stata costruita con le unghie, con la testa, con il cuore. E no, non è gratis. Non lo è mai stata. Non lo sarà mai.
Chi pensa che certi diritti siano acquisiti per sempre, sbaglia. Chi crede che la libertà di parola sia un dono eterno, non ha capito come funziona la Storia. Bastano poche leggi, bastano poche emergenze, e tutto può tornare indietro. Durante la pandemia, per esempio, lo abbiamo vissuto. Non discuto la necessità delle misure, ma quanto facilmente abbiamo accettato il silenzio. Come ci siamo abituati al non dire, al non dissentire, al giudicare chi pensava diverso. I più giovani hanno vissuto in un mondo sospeso, dove la libertà era un’eccezione e non una regola. E il guaio è che non se ne sono nemmeno accorti.
È qui che sento la rabbia salire. Una rabbia civile, profonda, lucida. Perché abbiamo perso pezzi di identità, come se la città non fosse più nostra, come se il Paese fosse una nave che si guida da sola. Ma non è così. Non può esserlo. La Repubblica — lo dice il nome stesso — è res publica, cosa di tutti. E invece pare cosa di nessuno. Mentre le scuole chiudono, i giovani migrano, i paesi si svuotano, i teatri diventano supermercati e la cultura un orpello, noi perdiamo il senso del vivere insieme.
La democrazia è come un amore: se non la curi, muore. Se la lasci andare, si dissolve. È fragile. Serve studio, fatica, presenza. Serve che i ragazzi capiscano l’economia vera, quella reale e quella finanziaria, perché non si è cittadini se non si sa seguire anche il percorso dei soldi, come faceva Giovanni Falcone. Non solo per trovare i mafiosi, ma per essere uomini e donne di Stato, nel senso più alto e nobile. Eppure, a scuola l’educazione civica è spesso un’ora messa lì, senza anima, senza pathos, senza memoria. Come possiamo pensare che un ragazzo difenda qualcosa che non ha mai capito davvero?
No, non è un giorno solo per le parate. O per le fanfare. È un giorno per guardarci allo specchio e domandarci: stiamo costruendo o stiamo disertando? Stiamo tramandando o stiamo dimenticando? I nostri bisnonni hanno rischiato tutto, e noi… cosa rischiamo? Quanto siamo disposti a fare per mantenere viva questa fragile e potente cosa che chiamiamo democrazia?
Io dico che va amata come si ama un figlio o una compagna di vita. Va difesa, anche nei giorni storti. Va nutrita, con libri, dialoghi, proteste, passioni. Anche con la rabbia. Perché la Repubblica è nostra solo se ce la prendiamo, se ne sentiamo il battito, se la viviamo come un corpo vivo, non come una statua spolverata ogni 2 giugno.
Oggi è la festa della Repubblica. Ma non sarà mai davvero festa se non ci ricorderemo, ogni santo giorno, che la libertà, la giustizia, la dignità… non sono sconti di stagione. Sono responsabilità.
E questa responsabilità è tutta nostra.
Egidio Francesco Cipriano
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