
“L’Aure e il peso del non detto”
Quella notte la finestra si era socchiusa da sola. Lo giuro. Non c’era vento, né passaggi d’aria. Solo il mare, in fondo, che sussurrava come fanno i vecchi che hanno troppe verità e nessuno che voglia ascoltarle.
Mia nonna, nel letto accanto, si era girata piano e aveva mormorato qualcosa nel suo dialetto stretto, fitto come un nodo. Un suono rotondo che odorava di latte caldo e santi appesi al muro. Poi il silenzio. Poi il peso. Quel peso sul petto, lento, profondo, come un segreto che finalmente decide di sedersi.
All’inizio ho pensato fosse il corpo, che a volte tradisce. O un sogno appiccicoso. Ma no. C’era qualcosa. Una presenza antica, come se il sonno fosse stato aperto da dentro. Sentivo il respiro farsi stretto, e con esso, una domanda muta.
Era lui.
L’Aure.
Lo chiamano così, da queste parti. Un essere che arriva senza bussare, che non ha corpo ma sa farsi sentire. Qualcuno dice sia un folletto col cappello rosso, altri lo descrivono come un’ombra senza occhi. Ma io quella notte ho sentito l’anima di qualcuno che non avevo mai conosciuto. Eppure, sembrava sapere tutto di me.
Mi ha posato addosso il suo silenzio, come un abito che non avevo mai indossato, ma che era cucito su misura. Lì ho capito: l’Aure non viene per far paura. Viene a ricordare.
È il portavoce dei segreti che ci precedono. Degli amori mai confessati. Dei dolori che nessuno ha pianto. È l’eco delle parole strozzate, dei desideri spezzati a metà e degli errori tramandati col sangue.
Quella notte non ho gridato. Non si grida contro l’Aure. Si ascolta.
E quando all’alba la finestra era di nuovo chiusa, come se nulla fosse successo, io sapevo che qualcosa era cambiato. Non nel mondo. In me.
Avevo sentito il peso del non detto. Avevo indossato, per un attimo, l’abito di un antenato.
Ero diventato custode di un’eredità invisibile.
L’Aure a Taranto – Il custode notturno dei segreti familiari
Taranto, città di confine tra acqua e fuoco, tra il grido del mare e il sussurro della terra, ha i suoi spiriti. Alcuni danzano, altri scompaiono. Ma ce n’è uno che resta. Invisibile, silenzioso, paziente. Lo chiamano l’Aure — o, più poeticamente, “Lauriedd cu cappiddə russ”.
Chi cresce in questa terra lo sa: l’Aure non è un’invenzione per bambini. È una presenza. Un’ombra che si posa sul petto di notte, un peso che non si può spiegare. Non fa rumore, ma parla a modo suo: con il corpo che si blocca, con il fiato che manca, con il ricordo che riemerge. È l’invisibile che si tramanda. È ciò che gli scienziati chiamano paralisi del sonno, ma che il popolo ha vestito di simbolo per poterne parlare.
Il cappello rosso e il peso del sangue
C’è chi lo vede con un cappello rosso, come se avesse un ruolo cerimoniale. Un piccolo sacerdote notturno che viene a officiare il culto del non detto. Il rosso è il colore del sangue, sì, ma anche della colpa, del desiderio, della rabbia. È il colore delle emozioni che non abbiamo saputo vivere e che — come certi vestiti in soffitta — passano di generazione in generazione, finché qualcuno non li indossa. Così l’Aure si fa portavoce dei segreti familiari. È l’eredità psichica che non trova parola ma si esprime nel corpo. Nelle notti inquiete. Nelle ansie senza nome.
Da folletto a fantasma dell’inconscio
Come molte figure del folklore mediterraneo, l’Aure è nato come spirito domestico — un lare, forse — che proteggeva la casa. Ma con l’arrivo del cristianesimo e il tramonto delle divinità minori, la sua funzione si è fatta ambigua. Il custode è diventato accusatore. Il protettore, messaggero di ciò che abbiamo dimenticato o rimosso.
Antropologicamente, si intreccia col tarantismo, ma lo fa nel silenzio. Non scuote il corpo con la danza, ma lo paralizza. Non cerca la guarigione tramite l’estasi, ma l’ascolto. Ti chiede di fermarti. Di sentire.
L’Aure come trauma transgenerazionale
La psicologia moderna lo leggerebbe come un simbolo del trauma ereditato. Come se gli irrisolti di chi ci ha preceduto avessero trovato un modo per bussare alla nostra coscienza. Jung parlava di archetipi, Schützenberger di “sindrome degli antenati”. L’Aure è tutto questo, ma detto nella lingua del popolo. È ciò che ci abita senza che ne siamo consapevoli. È l’eco di una voce non nostra che parla nella notte.
E cosa si fa con l’Aure?
Si racconta. Si onora. Si placa.
In alcune case si lascia un pane, un pezzetto di formaggio. Una filastrocca:
“Aure Aure int a casə
vine a mangiə ‘stu panə e ‘stu case”
È una forma di dialogo. Di riconoscimento. Perché il male, quando lo si guarda in faccia e lo si nutre con rispetto, smette di perseguitare e si fa maestro.
E oggi?
Oggi l’Aure non si vede quasi più. Ma chi ha occhi interiori, chi non ha ancora chiuso a chiave la porta dell’anima, lo incontra.
È quel sogno ricorrente.
Quel respiro che si spezza.
Quel pensiero improvviso che non ci appartiene ma ci chiama per nome.
E allora, più che temerlo, impariamo ad accoglierlo. Perché forse l’Aure è solo questo:
una forma d’amore tardivo, venuta a ricordarci che non siamo soli.
Che tutto ciò che non abbiamo detto,
vive ancora.
E chiede ascolto.
Egidio Francesco Cipriano
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