
C’è qualcosa di profondamente rassicurante nella linearità delle astronavi. Il ponte dell’Enterprise, ad esempio, è un trionfo di simmetria e comandi vocali perfettamente interpretati dal computer centrale. Il Millennium Falcon, invece, è una vecchia carcassa ribelle che funziona per il rotto della cuffia, guidata da un Wookiee e un contrabbandiere con problemi evidenti di regolazione dell’ego. Eppure entrambi volano. Entrambi salvano il mondo. Entrambi raccontano una verità scomoda: la diversità di funzionamento è ciò che rende l’universo interessante.
Benvenuti nella galassia della neurodivergenza.
L’illusione dell’equipaggio perfetto
In una società che adora le linee rette, i moduli precompilati e i test standardizzati, la neurodivergenza è un po’ come infilare Yoda in un consiglio di amministrazione aziendale. Parla strano, si muove lentamente, è piccolo e verde… ma vede quello che gli altri ignorano. La sua differenza non è un errore del sistema. È il sistema che non è ancora pronto.
Il termine “neurodivergente” nasce negli anni ’90 grazie alla sociologa attivista Judy Singer, che propose una visione radicalmente diversa: anziché considerare certe differenze neurologiche (come autismo, dislessia, ADHD, sindrome di Tourette) come disturbi, bisognava riconoscerle come variazioni naturali del funzionamento cerebrale umano. Non errori di sistema, ma versioni alternative del software mentale.
In questo senso, un androide come Data (Star Trek) oggi sarebbe probabilmente inserito in un PDP, con qualche riluttanza burocratica. “Troppo logico”, direbbero. “Non si adatta alle dinamiche di gruppo”, osserverebbero. Ma poi, quando serve salvare la nave, tutti a consultare proprio lui. Classico.
Eppure c’è un episodio che mostra la neurodivergenza in modo ancor più radicale, ironico e profondo: il test del Kobayashi Maru.
Il Kobayashi Maru: l’esame che nessuno può superare
All’Accademia della Flotta Stellare, c’è una simulazione chiamata Kobayashi Maru. Una nave civile in difficoltà, un settore sotto controllo nemico. Chi prova a salvarla viene inevitabilmente distrutto. Il test misura la reazione di un comandante davanti a una situazione senza via d’uscita. La maggior parte fallisce. Ma James T. Kirk no. Lui trucca il test. Cambia il programma. Riscrive le regole. Perché, dice, “non credo nelle situazioni senza uscita” .
Ecco, questo è pensiero divergente in azione. Invece di accettare il binario fallimento/successo, Kirk inventa una terza via. Il che, per la burocrazia didattica, sarebbe un incubo. Ma per la sopravvivenza umana? Una benedizione. I veri neurodivergenti spesso funzionano così: vedono spiragli dove altri vedono muri. E a volte, lo fanno con ironia.
L’estetica della diversità
Chi non ricorda la scena di Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza, nella cantina di Mos Eisley? Un luogo brulicante di umanità aliena, dove creature di ogni forma e specie si incontrano per bere, contrattare, combattere o semplicemente suonare una specie di jazz spaziale.
C’è un walrus mannaro, uno con la testa di martello, un tizio con la faccia da calamaro, e un sacco di gente che sembra uscita da una conferenza sul multiverso interspecie. Nessuno dice: “Tu qui non puoi entrare perché hai i tic vocali” o “Scusa, sei troppo iperfocalizzato sul tuo pianeta natale”. No. Lì sei uno dei tanti. O meglio, sei unico in mezzo a tanti unici, e questo genera bellezza.
È così che dovrebbe essere la nostra società: una Mos Eisley inclusiva (senza le sparatorie, magari), in cui la differenza non sia solo tollerata, ma ammirata per la sua estetica intrinseca
Doctor House e il vero Patch Adams: genio e compassione
A proposito di cervelli fuori asse: Gregory House, il medico scorbutico e antisociale della serie TV, è una quintessenza della neurodivergenza funzionale. Asperger? Narcisismo compensatorio? Forse. Ma con una capacità di diagnosi che trascende il pensiero medico convenzionale. House pensa per paradossi, esplora la patologia come Sherlock Holmes indagava delitti. E come Kirk, non accetta il “non si può fare”.
All’opposto, ma complementare, c’è Hunter “Patch” Adams, medico realmente esistito, interpretato da Robin Williams. L’uomo che portava clown e risate negli ospedali. Che osava dire che la gioia può essere parte della cura. Anche lui neurodivergente, in un altro modo: pensiero laterale, empatia radicale, ribellione poetica contro la spersonalizzazione della medicina. Due volti della stessa medaglia: divergenza come rivoluzione del pensiero e del cuore .
Quando la divergenza non è valore
Ma attenzione: non ogni deviazione dalla norma è un valore. La diversità è bellezza quando genera sopravvivenza, arte, comunità. Quando serve la vita, anche se lo fa da sentieri insoliti. Ma c’è anche l’abisso. Pensiamo al protagonista di Amabili resti: un uomo che trae piacere dal dolore, che si nutre dell’innocenza distrutta. Quella non è neurodivergenza: è perversione dell’esistere. Quando una mente trae godimento dalla morte o dal controllo assoluto sull’altro o dall’osservarlo, non è più diversità: è pericolo. E va curato. O, se non curabile, limitato nel suo potere di nuocere.
Confondere questi piani è un errore gravissimo. Difendere la divergenza come forma di espressione vitale non significa legittimare tutto ciò che è “diverso”. Il criterio è sempre: vita o distruzione? Arte o sadismo? Comunità o dominio?
Essere divertenti per capire la divergenza
Comprendere la neurodivergenza, a volte, richiede leggerezza. Una certa autoironia. Perché, diciamocelo, la normalità è una convenzione, e spesso pure noiosa. Personalmente, adoro essere un po’ divergente. E, perché no, divertente.
Il riso, come diceva Patch Adams, è atto terapeutico. L’umorismo è una forma di intelligenza sociale. E le persone neurodivergenti spesso hanno un umorismo tagliente, o surreale, o completamente fuori registro… eppure capace di spalancare mondi. Ridere è la Forza che ci tiene insieme, come il campo quantico nei cristalli Kyber. Se non ci credete, provate a spiegare a un bambino autistico che “giocare bene” significa sorridere a comando: forse vi risponderà con una battuta che spaccherà l’universo, sempre che siete in grado di comprenderla, l’universo non ha problemi a farlo.
Conclusione: nella galassia nessuno è sbagliato
Viviamo in un multiverso cognitivo-emozionale. La normalità è un mito utile solo agli standard. La realtà è che ogni mente è un pianeta, e non tutti orbitano allo stesso modo. Alcuni compiono rivoluzioni più lente, altri ruotano in senso contrario. Eppure fanno parte dello stesso sistema stellare.
Come disse (forse) Yoda: “Il diverso tu non temere, il diverso tu sii“. Non c’è bisogno di nascondere ciò che ci rende speciali. Serve solo una galassia abbastanza coraggiosa da accoglierlo.
E chi lo sa, magari il prossimo salto nell’iperspazio lo faremo proprio grazie a un Wookiee dislessico, un Vulcaniano emotivo e un Jedi con ADHD. Io, sinceramente, prenoto il posto accanto a loro.
Egidio Francesco Cipriano
Immagine generata AI