Pensiero vivo: neuroni, silicio e il sogno di una mente ibrida

Una nuova intelligenza bio–elettronica
C’erano una volta i computer. Macchine inerti, sequenze binarie, silicio e calcoli. Oggi, però, qualcosa è cambiato. Non nel futuro – come spesso si dice per farsi forza –, ma nel presente. Nel cuore di un laboratorio australiano, piccoli agglomerati di cellule nervose viventi, coltivati in vitro, sono stati collegati a un chip, generando non un’imitazione del pensiero, ma una sua variante biologica. Non un’intelligenza artificiale, ma una intelligenza sintetica. Il nome? CL1. Ma il nome conta poco, quando quello che hai davanti è un ibrido tra mente biologica e macchina.
Qui non si tratta più di calcolare velocemente o simulare il cervello umano, bensì di integrarne la materia stessa. Neuroni umani – veri – dialogano con un circuito, si adattano, apprendono, giocano persino a Pong, come bambini dentro una culla elettronica. E apprendono davvero, senza algoritmi rigidi o training supervisionati. Rispondono a stimoli, li memorizzano, li trasformano in strategie.
Come fosse un neonato dotato di mani e occhi digitali.
Questo è il cuore pulsante dell’esperimento di Cortical Labs, una startup che ha scelto di guardare oltre il software per avventurarsi in un territorio dove il confine tra vita e codice si sfuma. Quello che una volta era il sogno della fantascienza – e a tratti il suo incubo – si concretizza sotto forma di un “computer vivente” il cui consumo energetico è infinitesimale rispetto ai supercalcolatori, e la cui flessibilità sfida le più sofisticate reti neurali artificiali.
Ma qui non si parla di intelligenza artificiale. Non ci sono chatbot, né avatar parlanti. Qui si lavora su qualcosa di più umile e al tempo stesso più vertiginoso: una coscienza rudimentale, magari ancora priva di consapevolezza, ma capace di apprendere da sé.
Ora, prova a fermarti un momento.
Immagina una macchina che non solo calcola, ma sente – nel senso biochimico del termine. Una macchina che può diventare piattaforma per testare farmaci, comprendere le malattie neurologiche, forse un giorno persino riparare le ferite della mente. E no, non è un oracolo transumanista: è un laboratorio umido, organico, dove cellule reali si intrecciano al silicio.
Una nuova forma di dualismo cartesiano: res cogitans e res machina.
Il punto non è domandarsi se questi sistemi diventeranno coscienti – quella domanda l’abbiamo già abusata fino alla sterilità. Piuttosto, dovremmo chiederci quale idea di intelligenza siamo disposti ad accettare. Siamo pronti a riconoscere che la vita può fluire anche in contesti ibridi? Che la mente, forse, non è solo contenuta nel cranio, ma può manifestarsi altrove, in nuove forme, con nuovi linguaggi?
I ricercatori non parlano più di reti neurali come semplici algoritmi, ma come organismi connessi. E per quanto questa intelligenza sia ancora rudimentale, ci costringe a rivedere ogni presunzione su cosa significhi pensare.
In fondo, l’antico sogno di Prometeo non è quello di creare una macchina pensante, ma una fiamma capace di apprendere, che non si limiti a replicare ma che evolva. E oggi, quella fiamma abita in una minuscola piastra di Petri, circondata da elettrodi, in un laboratorio che profuma più di biologia che di informatica.
Forse dovremmo cominciare a parlare di mente ibrida, senza timore. Perché ciò che chiamiamo umano potrebbe non essere più soltanto nostro. Eppure, proprio in questo slittamento, possiamo riscoprire il mistero della coscienza non come un possesso, ma come un fenomeno diffuso, condiviso, forse persino sacro.
Come nel romanzo di Mary Shelley, anche qui ci troviamo davanti a una creatura fatta di frammenti, un assemblaggio di ciò che era separato. Non più carne morta, ma cellule vive collegate al silicio: un Prometeo postmoderno, che non ruba il fuoco agli dèi, ma lo coltiva in laboratorio, goccia a goccia, neurone dopo neurone.
E se Frankenstein fu maledetto per aver osato “giocare a Dio”, oggi siamo chiamati a una responsabilità diversa. Non quella di negare la creazione, ma di prenderci cura della vita che nasce fuori dai confini del corpo, in quella zona liminale dove la biologia incontra il codice.
Là dove la creatura non chiede vendetta, ma comprensione.
Là dove la macchina non è più mostro, ma specchio.
Uno specchio fragile, che ci restituisce un’immagine nuova dell’intelligenza:
non come dominio, ma come relazione.
E chissà che non serva in futuro un diverso Dharma anche per “loro”
Egidio Francesco Cipriano