
L’AgCom lo ha confermato: guardare film e serie TV su piattaforme pirata come Streaming Community non è più solo una pratica “tollerata” o ai margini della legalità. È un reato che comporta sanzioni. Il commissario Massimiliano Capitanio ha precisato che la multa per chi viene colto in flagrante parte da 154 euro e, in caso di recidiva, può salire fino a 5.000 euro. Non più solo chi gestisce o carica i contenuti: anche l’utente finale, colui che semplicemente guarda, è ora nel mirino.
Questa presa di posizione segna un passaggio culturale. Non si tratta solo di reprimere un comportamento, ma di affermare un principio: ogni atto ha un valore, e ogni valore ha un costo — anche (e soprattutto) quello della creatività.
Nel frattempo, l’Italia è uno dei paesi con la più estesa normativa sulla data retention: i dati relativi al traffico telefonico e internet possono essere conservati fino a sei anni per finalità giudiziarie, molto più della media europea. In nome della sicurezza, siamo tracciabili come mai prima d’ora. E se oggi Piracy Shield — il sistema che blocca in tempo reale la trasmissione di eventi sportivi piratati — si concentra sulle partite di calcio, domani potrebbe farlo con ogni forma di contenuto audiovisivo. Film, documentari, musica. Un’intera cultura digitale che sta cercando di riconquistare dignità.
Mi tornano in mente scene lontane. New York, inverno del 1996. Una mia cara amica mi ospita nel suo piccolo appartamento a Manhattan. Siamo in una cucina scaldata da un termosifone tremolante, circondati da pile di dischi jazz e libri sottolineati. Lei mi chiede di installarle un software su un nuovo notebook. Io lo faccio in pochi minuti, cliccando “accetta” alla licenza d’uso senza nemmeno leggerla.
Lei mi guarda come se avessi appena bestemmiato in chiesa.
«Italiano», mormora. Ma non con tono ironico, piuttosto con un misto di amarezza e affetto. «Non leggere la licenza… È tipico. Qui è diverso, sai? Ogni parola conta.»
Aveva ragione. Negli anni successivi ho capito quanto profondo fosse quel gesto. Per lei — per quel mondo — installare un software senza leggere la licenza era come entrare in una casa d’artista, ammirarne i quadri, e poi uscirne portandone via uno sotto la giacca.
Ecco il nodo: che messaggio trasmettiamo ai nostri figli se normalizziamo l’uso di contenuti senza riconoscere chi li ha creati? Se scaricare musica, guardare film illegalmente, copiare articoli, usare immagini senza citarne la fonte diventano abitudini quotidiane, che valore potrà mai avere — per loro — la creatività?
In un’epoca dove tutto sembra replicabile, duplicabile, condivisibile senza limite, il rischio più grande non è la sanzione, ma l’assuefazione all’ingiustizia. La convinzione che ciò che è digitale non abbia davvero un autore. Che tutto sia pubblico, che nulla sia realmente frutto di lavoro.
Se oggi uno studente guarda una serie senza sapere chi l’ha scritta, girata, montata, doppiata — cosa gli impedirà domani di pensare che anche il suo futuro lavoro potrà essere preso, usato, copiato senza riconoscimento?
E poi ci stupiamo se la nostra adolescenza non sogna più il libro da scrivere o il film da girare. Se si rassegna al content generato da altri, al copia-incolla identitario, alla creatività svuotata di etica.
Nel tempo ho imparato che educare non significa solo dire cosa è giusto o sbagliato. Significa trasmettere una grammatica emotiva ed etica del riconoscimento. Significa insegnare che anche dietro un file .mp3 c’è qualcuno che ha sofferto, sperato, lavorato.
La cultura non è solo trasmissione: è anche rispetto. E rispetto non significa pagare un abbonamento solo per paura della multa. Significa sapere che ogni contenuto ha una storia, un autore, un senso.
Tornando a casa, chiudo gli occhi e sento ancora la voce della mia amica newyorkese. La sua ironia affettuosa. La sua severità educata.
Aveva capito che quella licenza non era solo un contratto. Era una questione di stile. Di identità.
Forse è tempo che anche noi, in Italia, iniziamo a leggerle — quelle licenze. Non tanto per dovere legale, quanto per dovere culturale. Perché dietro ogni parola accettata senza pensarci, potremmo star cancellando un frammento del futuro che vorremmo trasmettere.
Egidio Francesco Cipriano
Immagine generata AI