
Non so se esista davvero una mappa, ma a volte mi sembra che l’invisibile tracci dei sentieri tra le anime. E non parlo solo d’intuizioni improvvise, ma di incontri. Persone che non si conoscevano, che vivono vite lontane dagli altari e dalle formule canoniche, si scoprono devoti alla stessa figura: l’Arcangelo Michele. Uomini e donne che magari recitano mantra tibetani, consultano l’I Ching, meditano con i piedi scalzi sul parquet di una sala yoga, eppure custodiscono nel cuore un’immagine precisa: un angelo con la spada, che schiaccia il male sotto il tallone. Una figura fuori tempo eppure attualissima, guerriera e luminosa, con il volto impassibile di chi ha attraversato il caos e ha scelto di non cedere.
Il guardiano del confine
Michele è un nome che significa: Chi è come Dio? — non una definizione, ma una domanda, uno specchio. Non è un angelo qualsiasi: è l’arcangelo, il capo delle milizie celesti. Lo si invoca da secoli per protezione, per scacciare il male, per fare chiarezza. Lo si venera sui monti, in grotte, lungo linee misteriose che sembrano congiungere santuari antichi — Mont-Saint-Michel, la Sacra di San Michele, Monte Sant’Angelo sul Gargano — come se ci fosse un asse invisibile tra cielo e terra, una spina dorsale del sacro.
Chi si rifugia in Michele non cerca conforto, cerca forza. Una forza silenziosa, interiore, che non aggredisce ma difende, non punisce ma separa. Difende ciò che di puro ancora sopravvive in noi quando il mondo ci confonde. Se Gabriele è l’annuncio, se Raffaele è la guarigione, Michele è la soglia. L’ultima difesa prima di perdersi. E forse per questo attrae chi sta ai margini, chi cerca un senso senza arrendersi alle dottrine, chi conosce il buio ma non vuole diventarne prigioniero.
Il mito che vive
San Michele appare nel cristianesimo, ma la sua figura è archetipo che precede i Vangeli. In lui si intrecciano tratti di Eracle, Perseo, Indra, Mitra, fino a Manjushri, il bodhisattva tibetano della spada della saggezza. In certe raffigurazioni Michele non schiaccia più solo il diavolo, ma un drago: simbolo del caos, del potere incontrollato, della tentazione dell’ego. È la parte oscura del mondo e dell’uomo, che Michele non annienta ma tiene a bada. Non lo distrugge, lo guarda negli occhi e lo contiene. Perché l’ombra non va eliminata: va riconosciuta.
Ecco perché forse anche chi non si dice credente lo invoca. Non si tratta solo di religione, ma di un movimento interno. Di una necessità. Quando la vita ci scuote, quando ci sentiamo sopraffatti da pensieri ricorrenti, da relazioni tossiche, da traumi sedimentati, la figura di Michele ci ricorda che possiamo dire basta. Possiamo prendere posizione. Possiamo attraversare il fuoco senza bruciarci. Possiamo essere guerrieri, senza perdere la tenerezza.
Le coincidenze non sono mai solo coincidenze
C’è qualcosa di misterioso nel modo in cui certi devoti si trovano. Non si conoscevano, ma parlano la stessa lingua interiore. Non avevano mai condiviso una preghiera, ma sentono un fremito quando il nome di Michele risuona. Non è solo una consonanza spirituale: è un richiamo. Come se appartenessero allo stesso sogno, alla stessa battaglia.
Quando due persone si scoprono legate da una devozione non canonica, quando pronunciano le stesse parole — difendimi nella lotta, sii mio rifugio — accade qualcosa che va oltre il razionale. Lo psicologo in me direbbe che è un processo di proiezione archetipica. Ma l’uomo che ascolta, osserva e si commuove, sa che c’è qualcosa di più.
Michele sembra trovarci nei momenti di passaggio, quando la mente non basta più e l’anima chiede un simbolo che la guidi. Nei sogni, nelle preghiere silenziose, nei momenti in cui siamo sul punto di cedere. Ed è lì che l’incontro con l’altro che lo invoca ha il sapore della sincronicità junghiana: due eventi apparentemente scollegati che si toccano nel profondo, perché rispondono alla stessa necessità psichica.
Il rifugio non è fuga
Il rifugio che Michele offre non è un’evasione dalla realtà. È il contrario. È la capacità di starci dentro senza perdersi. Di non farsi divorare dalla paura, dal giudizio, dalla violenza. Di restare presenti. Nel nostro tempo fluido, dove tutto cambia troppo in fretta, dove le identità si sgretolano e i punti fermi si dissolvono, Michele è presenza. Verticale, netta, lucida.
Nelle costellazioni familiari, a volte accade che compaia una figura che “protegge”. Non è un padre, non è un nonno, ma un archetipo di protezione pura. Quando accade, chi osserva sente che il campo si trasforma. C’è un ordine che si ristabilisce. E spesso, senza nominarlo, si avverte che quella figura è lui. Michele. Non l’angelo teologico, ma il simbolo psichico dell’ordine che non schiaccia, della forza che non ferisce, del “no” detto per amore.
E se fossimo noi il suo volto?
Forse ci affascina Michele perché ci ricorda una parte dimenticata di noi. Una parte che non ha bisogno di fuggire, che non si nasconde dietro le parole o le razionalizzazioni. Una parte che sa affrontare il drago con lo sguardo fermo. Ci ricorda che possiamo essere integri, anche nel caos comunemente accettato come peccato. Che possiamo essere spirituali, anche senza religione. Che possiamo custodire il sacro, anche senza comprenderlo pienamente.
Non è un mito sterile, non è una favola antica. È un’immagine viva. Un punto d’appoggio nei momenti in cui il terreno cede. E se siamo in tanti a vederlo nello stesso momento, forse non è solo una proiezione. Forse siamo cellule dello stesso corpo. Guerrieri silenziosi della stessa battaglia. E quando ci incontriamo, ci riconosciamo senza bisogno di parole.
Chi è come Dio? Nessuno. Ma ognuno di noi, a suo modo, può ricordare che esiste una luce che non cede. E in quel ricordo, Michele vive.
Egidio Francesco Cipriano
Immagine Variazione AI su dipinto di Angelo reni