
Non sarà Pechino a deciderlo
Non è una promessa, né una profezia. È una dichiarazione chiara, fatta con la calma increspata di chi sa che il tempo non è una linea retta, ma un cerchio che si richiude. Il Dalai Lama, a pochi giorni dal suo novantesimo compleanno, ha detto ciò che molti aspettavano, ciò che altri temevano e che alcuni volevano evitare: la ricerca del suo successore inizierà.
Il ritorno annunciato
Nel video diffuso durante la 15ª Conferenza Religiosa Tibetana, il Dalai Lama – 14° del suo lignaggio, ma primo in molti altri sensi – ha dichiarato che l’istituzione spirituale non finirà con lui. Che ci sarà un “dopo”. Nessuna dissoluzione, nessun addio. Solo una continuità sottile, come il filo invisibile che lega due vite tra loro in quello che il buddhismo tibetano chiama tulku.
Ma qui non si tratta solo di reincarnazione. Qui si gioca una partita antica tra due legittimità: quella del cuore e quella della forza. La Cina da anni rivendica il diritto di nominare il successore del Dalai Lama, usando uno strumento arcaico – l’“urna d’oro” – come foglia di fico istituzionale. Una forma di reincarnazione a controllo centralizzato, con approvazione governativa e profilo conforme alle direttive del Partito.
Un paradosso grottesco: uno stato ateo che vuole gestire una reincarnazione religiosa.
La battaglia invisibile
È già successo. Nel 1995, quando il Dalai Lama riconobbe Gendhun Choekyi Nyima come l’11° Panchen Lama, il bambino venne rapito dalle autorità cinesi tre giorni dopo. Da allora non si hanno notizie certe. Pechino nominò un altro bambino, Gyaincain Norbu, oggi figura pubblica senza seguito tra i tibetani in esilio. È una storia che sa di fiaba nera: un bambino sparito, un altro imposto, e un popolo costretto a fare finta che vada tutto bene.
E ora, il rischio è che accada di nuovo. Che si creino due Dalai Lama: uno riconosciuto dal popolo e dai monaci tibetani, l’altro scelto da una burocrazia che ha imparato a usare la religione come strumento di potere. Uno spirituale, l’altro istituzionale. Uno invisibile, l’altro mediatico.
Un doppio Dalai Lama: come una doppia luna che confonde i sentieri.
E se non tornasse?
Il Dalai Lama stesso, negli anni passati, aveva sollevato il dubbio che forse non ci sarebbe stato un successore. Che la funzione poteva esaurirsi con lui, se il popolo tibetano avesse deciso così. Una provocazione? Forse. O forse una mossa saggia per sottrarre il gioco a chi vuole usare le sue regole contro di lui.
Ma il 2 luglio 2025, a Dharamsala, è arrivata la smentita definitiva: ci sarà un successore.
E sebbene non si conosca né il luogo né il momento, sappiamo ora chi avrà l’autorità di riconoscerlo: non il Partito Comunista Cinese, ma la comunità spirituale tibetana.
Eppure il dubbio aleggia. Se da un lato si prepara un terreno per la rinascita, dall’altro si costruisce una trappola fatta di versioni concorrenti, di propaganda, di ostacoli logistici e spirituali. Come si potrà riconoscere il “vero” Dalai Lama, se entrambi saranno proclamati come tali?
Sarà forse una sfida per il futuro, ma è già una crisi del presente.
Dialoghi invisibili
Immagino un monaco giovane, seduto in silenzio, mentre ascolta le parole del suo Maestro in quel video. Forse chiude gli occhi e sorride. Forse piange. Forse pensa che nulla è eterno, neanche il ruolo che ha incarnato un uomo per più di settant’anni. Ma forse ricorda anche che ciò che è eterno non ha bisogno di conferme: basta che sia.
Nel frattempo, in qualche ufficio di Pechino, un funzionario prende appunti, pianifica conferenze, convoca “esperti religiosi” di Stato. Tutto deve sembrare coerente, ufficiale, legittimo. Anche la reincarnazione.
La scena è surreale. Da un lato, una reincarnazione che passa per il cuore, il sogno, la visione dei maestri. Dall’altro, una reincarnazione che passa per decreti, timbri e strategie.
Oltre la politica: la fiamma
Alla fine, la vera domanda non è chi sarà il prossimo Dalai Lama.
La domanda è: chi lo ascolterà?
Il rischio non è tanto che nascano due figure, ma che si perda il senso profondo di ciò che rappresenta questa figura: la compassione in forma umana. Il ponte tra la tradizione e il presente. Il sorriso saggio che non divide, ma riconcilia.
La Cina potrà anche nominare un nuovo Dalai Lama, ma non potrà convincere nessuno che il potere è saggezza. Potrà scegliere un nome, ma non generare un cuore. Potrà controllare una biografia, ma non accendere una fiamma.
Quello sguardo di Karuna
Forse il 15° Dalai Lama nascerà in Mongolia. O in Islanda. O a Torino, in mezzo ai tram. Magari sarà un bambino allergico all’incenso e con la passione per i manga. Ma in lui, qualcuno riconoscerà quello sguardo, quello stesso sguardo che ha attraversato secoli, rivoluzioni, cataclismi e sorrisi.
E forse, tra cinquant’anni, un giornalista cinese scriverà:
«Abbiamo trovato il Dalai Lama. Ma lui non ci riconosce.»
Egidio Francesco Cipriano
Di Yancho Sabev – Opera propria, CC BY-SA 3.0, Collegamento