
Ci sono notti in cui il pensiero non tace. Notti in cui il respiro di chi abbiamo accanto è silenzioso, artificiale, o semplicemente assente. E in quelle notti, la domanda si fa scomoda come un ago sotto pelle:
“Chi decide se una vita vale?”
Ho camminato per anni accanto a corpi fermi, immobili, che pure contenevano cieli stellati interi.
Persone paralizzate, inchiodate ai loro letti come santi laici senza miracoli, che però parlavano con lo sguardo, con i piccoli cedimenti delle ciglia. Vite difficili, sì. Vite impossibili, forse. Ma mai inutili.
È da lì che ho cominciato a dubitare. Non della possibilità di morire con dignità. Quella — da psicologo e da essere umano — la capisco. Ma della macchina che renderà tutto questo una procedura.
Ricordo la mia tesi della prima laurea in psicologia. Leggevo dell’Aktion T4, il programma eugenetico nazista. Stanze bianche, reparti clinici. Non camere a gas, ma ospedali. I genitori, convinti “per amore”, accompagnavano i figli al sacrificio. Non si parlava di mostri, ma di infermieri con le mani gentili.
Non di odio, ma di “scelte compassionevoli”. Per il bene del bambino, si diceva. Il bambino non parlava. Non si opponeva. Moriva. E il sangue, mentre leggevo, ha iniziato a farmi male.
Oggi si discute del diritto di morire. E io, da cittadino pensante, sono d’accordo. Ma il problema non è nel diritto. Il problema è nel sistema che lo gestirà.
Viviamo in un’epoca in cui tutto è misura, costo, sostenibilità. In cui i corpi fragili non producono, gli anziani pesano, i disabili sono voci di bilancio. E se domani una legge, scritta con buone intenzioni, diventasse un modo elegante per disfarsi dei “diversi”? La fragilità ha già pochi avvocati. Se un giorno la si potrà legalmente spegnere, quanti combatteranno davvero per tenerla accesa?
Dove finisce il diritto e dove inizia l’opportunità?
La possibilità di scegliere per sé può diventare, in mani sbagliate, un invito a scegliere per gli altri. Il paradosso è sottile. Da un lato, la morte come atto di libertà, come esito di una coscienza lucida.
Dall’altro, la morte come scorciatoia di un sistema esausto, come via economica, come soluzione conveniente.
Siamo sicuri che il diritto non diventi una spinta gentile? Che la “dolce morte” non venga suggerita come l’unica “alternativa sensata”? E quando accadrà, saremo in grado di distinguere una scelta vera da una rinuncia indotta?
C’è un altro punto:
Che fine fa la sofferenza?
Siamo così impegnati a volerla eliminare che abbiamo dimenticato che la sofferenza non è l’opposto della vita. È parte della sua grammatica. È forse ciò che ci costringe a guardarci allo specchio senza distrarci.
Chi ha conosciuto il dolore vero — non solo quello fisico, ma esistenziale — sa che la sofferenza può trasformare, inchiodare, farci naufragare… Ma anche cambiare orbita. Diventare coscienza.
Eppure viviamo in un tempo che ha chirurgicamente anestetizzato tutto: dolore, vecchiaia, fallimento, solitudine. Non li vogliamo vedere. Li censuriamo con filtri, pillole, eclissi emotive.
Così ci ritroviamo a discutere di dignità della morte come se non avessimo ancora imparato a riconoscere la dignità della vita spezzata.
Chi stabilisce quando una vita non è più degna?
Un’intelligenza artificiale?
Un algoritmo?
Un protocollo sanitario?
Un parente stanco?
Un medico sotto pressione?
È facile difendere il diritto alla dolce morte quando sei in salute. Quando sei seduto in poltrona con un cammino autonomo davanti. Ma chi ha vissuto davvero accanto al dolore cronico, al respiro meccanico, ai giorni senza futuro, sa che la domanda non ha risposte facili. Eppure proprio chi ha abitato la fragilità sa anche che la vita è molto più vasta del benessere.
Siamo umani, non perfetti. E proprio la nostra imperfezione ci salva. Ci costringe a rallentare, ad accompagnare, ad accudire. Ci rende compagni.
Se togliamo la sofferenza dal panorama dell’esistere, se trasformiamo la morte in una pratica medica rapida, silenziosa, efficiente, cosa resterà della nostra umanità? Un riflesso sbiadito in uno schermo LCD, dove anche il morire sarà un’app da confermare con un click?
Non ho risposte.
Solo domande che pesano. Solo un cuore ambivalente che crede nel diritto ma non nel potere che lo garantisce. Che vorrebbe la libertà di scegliere, ma teme l’uso che se ne farà.
Perché — e qui la poesia si rompe —
dove c’è potere, spesso si perde compassione.
E dove si perde compassione,
la morte non è più una scelta,
ma un silenzio indotto.
Egidio Francesco Cipriano
Foto Egidio Francesco Cipriano+AI