
Il giornalista si chiamava Emilio Tagliapietra, un nome che sembrava già di per sé una professione: tagliava le pietre della realtà per ricavarne blocchi d’informazione ben levigati. Non era famoso, ma neppure sconosciuto. Era, come spesso accade a chi non urla, un professionista rispettato nel silenzio. Scriveva per Il Quotidiano del Mattino quasi vero, un giornale né caldo né freddo, né coraggioso né vile: temperato, come una minestra riscaldata ma con una bella foto editoriale.
Emilio aveva i tratti dell’uomo che non fa rumore: capelli senza esclamazioni, vestiti in toni da corridoio ministeriale, una tazza con scritto “Fatti, non pugnette”, regalo ironico di un ex caporedattore diventato ora ghostwriter di politici dal cuore flessibile.
Quella mattina, la città puzzava di pioggia vecchia. La pioggia nuova tardava, quella vecchia stava marcendo. Arrivò in redazione con l’idea di scrivere un pezzo sul traffico o su una sagra del carciofo violetto, quando notò una busta infilata sotto la porta del suo stanzino.
Era sigillata con ceralacca nera. Nessun mittente. Solo una scritta sul retro, a penna stilografica:
“Una notizia è vera quando sanguina. Una bugia, quando profuma.”
Dentro, una chiavetta USB e un foglio con poche parole:
“Scrivila. Se ne hai il coraggio. Ma ricordati: ciò che vedi, vedilo fino in fondo.”
Fece un sospiro tra la diffidenza e la caffeina, inserì la chiavetta nel computer e aspettò. Non si aspettava nulla. E invece vide tutto.
Un video.
Un’inchiesta.
Una voragine.
Un politico molto noto che rideva mentre firmava qualcosa di falso. Un’azienda farmaceutica che spediva scatole vuote a un ospedale. Una finta cerimonia di solidarietà trasmessa in prima serata, mentre dietro le quinte i “bisognosi” erano attori. E i fondi per l’alluvione… evaporati. Ma con tanto di post commoventi sui social. Una di quelle storie che ti fanno battere il cuore, poi lo strozzano con lo stesso battito. Una di quelle verità che, se scritte bene, possono far saltare una carriera. O un Paese.
Emilio si sedette. Guardò fuori. Il cielo aveva lo stesso colore del dubbio. Poi iniziò a scrivere. La notizia prendeva forma. Era ruvida. Senza musica di sottofondo. La verità era quella. Era brutale. Ma vera come un’unghia incarnita: ignorarla faceva più male che toglierla.
Dopo tre ore, la prima versione era pronta. Un pezzo secco, rigoroso, pieno di date, documenti, nomi, incroci. Quando lo rilesse, si sentì nudo. Poi nacque in lui l’alternativa.
Una seconda versione, bella, fluida, paludata di retorica e immagini ad alta definizione. Una verità alternativa, costruita con arguzia: il politico diventava un salvatore, i fondi c’erano ma “bloccati”, le immagini dei bambini erano reali ma decontestualizzate, il tutto chiudeva con una citazione di Gandhi e un hashtag coinvolgente.
Due notizie. Due mondi.
E fu allora che accadde la cosa più surreale: le due versioni iniziarono a parlare.
La notizia vera — stropicciata, stampata in bianco e nero, con qualche macchia di caffè — la chiameremo Vera.
La notizia falsa — lucida, in carta patinata, con un bel titolo in grassetto color corallo — la chiameremo Bella.
Vera: «Mi hanno scritta col cuore tremante. Perché fai finta che tutto sia ok?»
Bella: «Io do speranza. Tu porti guai.»
Vera: «Io porto la realtà. Tu porti anestesia.»
Bella: «E allora? La gente preferisce dormire con un sorriso che svegliarsi con la nausea.»
Vera: «Ma svegliarsi, almeno.»
Bella: «Ti sei guardata? Hai l’odore dell’asfalto. Io profumo di futuro.»
Emilio le guardava, impotente. Fu allora che il muro dietro la scrivania — bianco, inutile — si spaccò leggermente, lasciando emergere una fessura da cui usciva una luce opaca e una voce cavernosa:
«Ogni volta che scegli Bella, un mattone copre una voce. Ogni volta che scegli Vera, qualcuno sente di nuovo.»
Spaventato, Emilio si avvicinò alla fessura. Vide una grande stanza nascosta, tappezzata di notizie vere: appese, accartocciate, murate vive. Ogni foglio aveva occhi. E ogni occhio lo guardava. Alcune notizie piangevano. Altre cantavano vecchie sigle giornalistiche. Una, addirittura, faceva le parole crociate.
Emilio tornò alla scrivania. Scelse Vera.
Premette Invia.
Silenzio.
Un’ora dopo, il Direttore lo convocò. Aveva in mano una stampata dell’articolo. Lo lesse. Poi, con calma, gli disse: «Emilio… tu sei un professionista. Hai sempre fatto un buon lavoro. Ma questo… è veleno. Veleno puro. Sai cosa succede se pubblichiamo? Salta la pubblicità. Saltano le telefonate. Saltano le cene. E io ho una cena con il sottosegretario martedì.»
Fece una pausa drammatica.
«Scrivine un’altra. Più… narrativa. Più positiva. Con delle mamme. O dei cani.» Emilio rifiutò. Il Direttore sospirò. «Allora, sei fuori.»
Gli tolsero l’accesso. La sedia. Persino la tazza.
Passarono giorni. Settimane. Vera non venne pubblicata da nessun giornale. Ma iniziò a circolare. Appariva nei commenti dei blog, nelle lettere al direttore mai lette, nei monologhi degli ubriachi giusti, nei podcast non monetizzati. Viveva. Sottovoce.
Emilio trovò lavoro in una biblioteca comunale, sezione “documenti dimenticati”. Gli diedero una scrivania vicino al bagno. Ogni tanto, qualche studente lo riconosceva: «Lei è quello della notizia… quella mai uscita, vero?» E lui sorrideva.
Un giorno, mentre catalogava un faldone sulle bufale di fine secolo, trovò infilata tra le pagine una vecchia stampa della sua Vera. Qualcuno ci aveva scritto sopra con la penna:
“Forse non cambia il mondo. Ma almeno ci abito dentro.”
Post Scriptum.
Anni dopo, Emilio ricevette un’email da una rivista internazionale:
“Abbiamo trovato il suo articolo. È ancora disponibile per una pubblicazione in lingua coreana? Paghiamo in kimchi.”
Accettò. E brindò da solo, con vino bianco e patatine. Perché la verità, a volte, non ti fa ricco. Ma sa accompagnarsi bene a tutto.
Egidio Francesco Cipriano
Immagine generata AI – falsa come quella vera ;-)