
Viaggio tra la tradizione tibetana e l’eredità invisibile del Dharma
Avevo ventidue anni quando, per la prima volta, assistetti a una puja Gelugpa. Era inverno, l’odore acre del burro che bruciava si mescolava all’incenso e ai mantra gutturali dei monaci. Non capivo nulla — né le sillabe, né i gesti. Me ne stavo seduto in un angolo del gompa, cercando di restare invisibile. Avevo letto qualcosa su Tsongkhapa e sul Lamrim, ma quella era un’altra lingua, un’altra vibrazione. Un mondo che, seppur affascinante, mi sembrava distante. Mi limitai a osservare. In silenzio. Come si fa con i misteri.
Il tempo passò, e io passai attraverso la vita, la psicologia, la relazione d’aiuto, le ombre e i transiti. A trentanove anni mi ritrovai, senza cercarlo, a partecipare a una Ganapuja Dzogchen, questa volta non più come spettatore muto, ma come invitato a condividere. L’insegnamento arrivò come una richiesta semplice, ma diretta:
— “Recita la Preghiera in Sette Versi a Guru Rinpoche. Partecipa, non osservare soltanto.”
Mi irrigidii. Io? Recitare parole di cui non conoscevo la potenza? Fare i mudra con le mani, offrire cibo simbolico a esseri invisibili? Una parte di me — la mente occidentale, quella che vuole comprendere prima di affidarsi — si ribellò. Ma c’era anche un’altra parte, silenziosa, che intuiva la bellezza in quelle formule, nei gesti lenti, nella voce che s’intonava con la voce degli altri, come se, per un istante, non ci fosse più alcun “io”.
Quando le parole fluirono, qualcosa accadde. Non era teatralità. Era ritmo antico, memoria collettiva, linguaggio archetipico. Era psicologia incarnata, era trasformazione simbolica in atto. I mudra non erano ginnastica rituale, ma gesti che toccano l’invisibile, proprio come i sogni, come le ferite, come gli atti mancati.
Da quel giorno, la mia strada si aprì come non avevo previsto. Quasi con leggerezza — ma con crescente rispetto — ricevetti trasmissioni e iniziazioni da tutte le scuole: i sussurri tantrici dei Nyingma, la potenza viscerale dei Kagyu, l’eleganza esoterica dei Sakya, la precisione cristallina dei Gelug. E le molte iniziazioni di guarigione e purificazione, che parevano fatte apposta per chi, come me, aveva scelto la psicologia come sentiero di guarigione e realizzazione.
Mi dissi: “Forse uno psicologo è davvero un medico dell’anima. Ma per esserlo, deve prima guarire da sé stesso.”
E non basta un manuale. Serve un canto. Serve uno specchio puro che ti rifletta anche quando non ti piace ciò che vedi. La puja — nelle sue mille forme — è molto più di un rito. È uno specchio del cosmo in atto. È un modo per entrare nel ritmo dell’universo, dove ogni suono, ogni gesto, ogni offerta, diventa trasmissione vivente. Ne esistono di moltissimi tipi, ciascuna con una funzione precisa, anche se tutte conducono, in fondo, allo stesso cuore.
- Ci sono le puja di guarigione, come quelle dedicate a Menla, il Buddha della Medicina, in cui si recitano preghiere, mantra, si fanno offerte d’acqua e si visualizza luce che purifica e riorienta i flussi energetici del corpo sottile.
- Le puja di lunga vita, come quelle di Tara Bianca o Amitayus, in cui si invocano benedizioni per la continuità del respiro, del tempo, della consapevolezza.
- Le puja di protezione, spesso con l’energia intensa di Mahakala o di Vajrakilaya, che non chiedono altro che verità — anche dura — e sincerità d’animo.
- Le puja per i defunti, come il Bardo Puja, dove le preghiere diventano ponti tra mondi, e si accompagna lo spirito di chi è morto verso la liberazione.
- E ci sono le puja di confessione e purificazione, come quelle dedicate a Vajrasattva, con il suo mantra lungo e affilato come uno scalpello d’oro. Non confessi a un Dio. Confessi alla tua coscienza. E poi lasci andare.
Una delle puja che più mi ha colpito, e che porto nel cuore con particolare gratitudine, è stata proprio una Puja di Vajrasattva. Ricordo che iniziammo nel tardo pomeriggio. L’atmosfera era semplice ma intensa. Nessuna teatralità, solo una lampada di burro, il testo, e la voce ferma del lama. Durante la recitazione, mi accorsi che la formula non era lì per “pulire i peccati”, ma per rivelare che non c’era mai stato niente da purificare, se non le illusioni che avevo costruito su me stesso. La voce interna che mi accompagnava diceva:
— “Chi sei senza la tua colpa? E chi saresti se ti concedessi la possibilità di cambiare, non perché sei sbagliato, ma perché sei in cammino?”
Alla fine, non piansi. Ma fu come se avessi pianto con tutte le cellule. E in quel silenzio, compresi che una puja non si osserva, si attraversa.
Le scuole tibetane, ciascuna con le sue sfumature, offrono percorsi diversi ma convergenti verso la stessa natura della mente. La Gelugpa ordina, i Kagyu trasmettono, i Nyingma rivelano, i Sakya scolpiscono, lo Dzogchen dissolve. In tutte, la puja è via di purificazione, risveglio e dedizione. Eppure, ogni vera pratica richiede una trasmissione autentica da un maestro realizzato. Non per dogma, ma per necessità profonda. Perché l’ego spirituale è il più insidioso, e dirsi maestri di sé stessi, se non si è pronti, è come mettersi una corona fatta d’orgoglio. Un vero maestro non ti incatena, ma ti mostra il volto del reale senza i tuoi filtri. Ti ricorda che l’umiltà è la sola protezione autentica, l’unica condizione perché la conoscenza si trasformi in saggezza (sherab).
In tibetano, sherab (ཤེས་རབ་) non è solo “conoscenza superiore”, è la comprensione che scaturisce dall’essere toccati nel profondo da ciò che è oltre l’intelletto. È ciò che rimane quando ogni dubbio ha fatto il suo giro e si arrende al mistero.
Rivedo oggi quel giovane di ventidue anni seduto in silenzio, e lo ringrazio. Era il primo passo. E onoro l’uomo che a trentanove anni ha abbassato la voce per intonare insieme ad altri una lingua che, nel cuore, conosceva già. Non era recitazione. Era partecipazione al respiro stesso del cosmo, laddove le parole antiche non sono più parole, ma ponti. E da quel ponte, oggi, sento di poter dire che la vera guarigione è riconoscere che la mente non ci appartiene, ma ci abita. E che la bellezza di una puja non è nella forma, ma in ciò che si trasforma.
E noi — noi che cerchiamo di aiutare, di ascoltare, di accogliere — forse siamo davvero, in fondo, medici dell’anima. Ma solo se ci lasciamo curare dal mistero. Solo se accettiamo di non essere al centro, ma parte del mandala.
Solo così, e mai altrimenti, potremo portarci dentro — con silenzioso rispetto — il nome Sherab.
Egidio Francesco Cipriano
foto Egidio Francesco Cipriano: Sakya Trizin Ngawang Kunga