
Quando l’Amore salva la Vita
— Hai mai pensato che potresti amare me, invece di lei?
Lei si voltò. L’ultima luce del tramonto le tracciava un profilo caldo, perfetto, come se fosse stata disegnata da un pittore che aveva appena finito di innamorarsi.
— Se mi tocchi ancora una volta mentre parli, potrei anche pensarci.
— Non era per sedurti… è che ogni volta che ti sfioro, rilascio ossitocina.
Lei rise.
Io no. Perché sapevo che era vero.
E lo sapeva anche il mio cuore.
L’ossitocina è l’ormone che gli innamorati chiamano “dell’amore”, gli scienziati “della fiducia” e i poeti non nominano affatto, perché nominarla spezza l’incanto. Ma anche il silenzio è un confine fragile, e le scoperte recenti la riportano in primo piano, nel luogo dove tutti noi la cerchiamo quando fa male davvero: il cuore.
Non in senso metaforico, ma biologico.
Un team di ricercatori ha dimostrato che l’ossitocina — quel piccolo miracolo neuroendocrino che si sprigiona quando abbracciamo, baciamo, allattiamo, ci innamoriamo o facciamo l’amore senza pensare al domani — è in grado di stimolare veramente la rigenerazione del cuore. Dopo un infarto, dopo una ferita, dopo il gelo. Anche letteralmente: nei pesci zebra, sottoposti a una lesione da congelamento, l’ossitocina prodotta dal cervello accelera la rinascita dei tessuti cardiaci, come se dicesse: “Non è finita. Tu puoi ancora battere per qualcuno.”
Non è una favola. È biochimica. Ma ci somiglia terribilmente.
I ricercatori — che forse un po’ si sono anche commossi, anche se non lo ammetteranno mai — hanno visto come l’ormone viaggia dal cervello al cuore, dove stimola le cellule dell’epicardio (la parte più esterna del muscolo cardiaco) a trasformarsi in cellule progenitrici: quelle da cui si possono rigenerare nuove fibre, nuovi vasi, nuova vita. Ossia: nuovo amore.
Nei pesci. E — sorpresa — anche nelle cellule umane, coltivate in laboratorio. Ossitocina, somministrata in precise dosi, ha raddoppiato la capacità delle cellule staminali di trasformarsi in progenitrici del cuore. Gli altri ormoni? Nulla. In questa ricerca non pervenuti. È l’ossitocina, quella che ci lega all’altro e a noi stessi, che si comporta come una levatrice di carne e sangue.
Chi l’avrebbe detto che il cuore infranto, metafora tanto abusata da diventare quasi kitsch, avesse un suo riflesso molecolare autentico? Il cuore può davvero rigenerarsi. Ma ha bisogno di amore. O almeno, di ossitocina. E qui viene il problema. Perché sì, è vero che l’ossitocina la produciamo quando amiamo, ma anche quando ci fidiamo. E la fiducia, in questi tempi di ghosting, narcisismo e dating-app, è diventata una specie di attività estrema. Un po’ come scalare l’Everest in mutande.
Allora che fare?
Tre opzioni:
- Innamorarsi. (Rischioso ma gratuito, se si esclude il conto emotivo).
- Farsi iniettare ossitocina. (Potenzialmente utile per il cuore, sconsigliato per il senso del ridicolo).
- Allenarsi alla tenerezza. (Funziona. Anche con i gatti, con i figli, con chi ci chiede scusa senza pretese).
Un giorno, forse, useremo l’ossitocina come farmaco post-infarto. Forse verrà spruzzata in forma aerosol nei reparti di cardiologia, o impiantata in microdosi nel tessuto ischemico come una carezza biochimica. Ma nel frattempo — e qui torniamo a noi — potremmo fare un passo indietro, e domandarci se quella cosa così sottile che chiamiamo amore, e che spesso trattiamo come un capriccio, non sia in realtà un meccanismo evolutivo benedetto, una medicina precoce che la natura ha predisposto per evitarci l’infarto (letterale o simbolico).
Perché c’è qualcosa di miracoloso nell’idea che ciò che ci salva la vita non sia l’indifferenza, ma il legame. Che il cuore si curi non con la distanza, ma con la prossimità. Che il tuo tocco — sì, proprio autentico, quello che oggi spesso manca — fosse, in fondo una terapia rigenerativa.
Post Scriptum
Se la scienza continuerà così, potremmo presto ordinare una dose di ossitocina con la stessa facilità con cui oggi si ordina un antidepressivo. Ma c’è da chiedersi: funzionerà davvero, se a somministrarla non sarà qualcuno che ci guarda negli occhi?
Perché la verità è che il cuore, come la poesia, non batte a comando.
Ha bisogno di una voce, di un volto, di un perché.
E magari anche di una mano, che ogni tanto lo sfiori —
senza motivo apparente,
ma con una sincerità così pura
da riscrivere il destino
cellula dopo cellula.
Egidio Francesco Cipriano
immagine AI