
Mi è capitato spesso, in studio, di ascoltare il dolore di chi – pur avendo tutto – si sente vuoto. “Dovrei essere felice”, mi dicono. “Ho un lavoro, una casa, qualcuno che mi ama… ma qualcosa manca.” Non è la mancanza a fare male, ma l’eccesso di legami invisibili.
Ciò che ci fa soffrire non è quasi mai ciò che accade, ma il modo in cui vi restiamo attaccati, con mani tese che stringono solo vento.
È allora che riaffiora un antico insegnamento tibetano, essenziale come il respiro: i quattro attaccamenti. Quattro corde sottili, che se non sciolte, diventano nodi. Quattro specchi in cui si riflette, amplificata, la nostra fame di senso.
1. L’attaccamento a questa vita: la maschera del controllo
“Se hai attaccamento a questa vita, non sei un vero praticante.”
Nel mondo psichico, questo attaccamento assume il volto dell’ansia. La corsa a ottimizzare ogni dettaglio, a garantirsi sicurezza e approvazione. Dietro il bisogno di “fare bene” spesso si nasconde la paura arcaica di non esistere se non si brilla, se non si è visti.
Nel linguaggio della psicologia, potremmo parlare di identificazione narcisistica con l’immagine di sé. Nel linguaggio dell’anima, è l’incapacità di fidarsi della corrente, di lasciare che la vita sia anche sconfitta, silenzio, attesa.
Separarsi da questo attaccamento non vuol dire diventare apatici o irresponsabili. Vuol dire smettere di cercare nel successo, nel giudizio altrui o nella performance spirituale, la propria legittimità a esistere.
Vuol dire respirare, anche se tutto cade.
2. L’attaccamento al samsara: il desiderio che ritorna sempre uguale
“Se hai attaccamento al samsara, non hai la rinuncia.”
Samsara è la ruota. Non solo quella delle reincarnazioni, ma quella quotidiana dei pensieri compulsivi, delle relazioni tossiche che ripetono copioni infantili. Ogni volta che crediamo che “questa volta sarà diverso”, ma ripetiamo la stessa dinamica, siamo nel samsara. Lo vedo in chi torna, sempre, dallo stesso tipo di partner. In chi cerca il riscatto nel successo, e appena lo ottiene, si sente vuoto. In chi idealizza la salvezza come qualcosa che arriverà, ma non è mai adesso.
Dal punto di vista psicologico, è il legame traumatico, la ripetizione inconscia per tentare di guarire un’originaria ferita. Spiritualità e sostegno psicologico qui si abbracciano: rinunciare al samsara significa accorgersi del loop, e non alimentarlo più. Non per punirsi, ma per scegliere di smettere di soffrire nello stesso modo.
3. L’attaccamento al proprio interesse: l’ombra dell’ego spirituale
“Se hai attaccamento al tuo interesse personale, non hai la bodhicitta.”
Quante volte anche la guarigione diventa narcisismo? Quanti “aiuti” sono solo il modo sottile in cui l’ego si alimenta di gratitudine altrui?
Nella psicologia contemporanea si parla di falso sé altruistico: persone che aiutano compulsivamente gli altri per non sentire la propria angoscia di vuoto. Ma dentro si sentono stremate, arrabbiate, spesso usate. La compassione autentica non nasce dal bisogno di essere buoni, ma da un cuore che si è rotto abbastanza da diventare vasto.
Bodhicitta – lo spirito del risveglio – non è una bandiera da sventolare. È un campo di forza silenzioso che include anche chi ci ha feriti, anche chi non capisce. È un gesto gratuito, non una strategia.
Separarsi dall’interesse personale non significa annullarsi. Significa che il tuo bene e quello degli altri non sono più in opposizione.
4. L’attaccamento al punto di vista: la prigione della certezza
“Se hai attaccamento a un punto di vista, non hai la visione.”
Chi cerca davvero non sa. Non perché sia ignorante, ma perché si è spogliato delle risposte rigide, dei dogmi, delle identità costruite. La psicologia lo chiamerebbe decentramento cognitivo, la capacità di osservare i propri pensieri come eventi mentali e non come verità assolute.
Spesso il paziente arriva con un’etichetta addosso: “sono borderline”, “sono dipendente affettivo”, “sono narcisista”, “sono spirituale”. Ma quelle sono solo mappe, non il territorio.
La visione si apre quando si lascia cadere tutto ciò in cui ci si era identificati, anche la spiritualità stessa. Non c’è niente da credere – solo da vedere.
Conclusione (quasi) finale: come perdere tutto e restare interi
Separarsi dai quattro attaccamenti non è un gesto eroico. È un processo lento, a volte invisibile, fatto di piccoli atti di sincerità.
Come lo sguardo di una madre che smette di voler “aggiustare” il figlio e semplicemente lo abbraccia. Come il terapeuta che, per un istante, lascia cadere la tecnica e si espone alla propria commozione. Come il praticante che non cerca più il risveglio, ma solo di non tradire il momento presente.
Spiritualità e psicologia qui non sono separate. L’una cura l’anima, l’altra la struttura che la contiene. Insieme, ci aiutano a sciogliere i nodi con dolcezza, senza strappi. A restituirci, un attimo alla volta, la nudità essenziale dell’essere.
E adesso?
Ora che sai di non dover essere brillante, non rincorrere amori karmici, non farti amare da tutti, né avere sempre ragione…
Puoi respirare.
Puoi piantare una pianta.
Puoi anche sbagliare strada.
Perché, sorpresa: nessuna via porta alla felicità più di quella che non hai più bisogno di percorrere.
E se un giorno, qualcuno ti chiederà:
“Ma tu da che parte stai?”
Sorridi, e rispondi:
“Dalla parte del vento.”
Egidio Francesco Cipriano