
C’è un’immagine che mi accompagna da anni, forse banale ma rivelatrice: la mensa della scuola elementare. Tavoli lunghi, bicchieri di plastica, cucchiai di metallo che battono contro i piatti. I bambini che ridono, gridano, si rincorrono con le parole più che con le gambe. E, in mezzo a quel frastuono, il cibo: pasta scotta, un po’ slavata, una fetta di carne dura, una mela lasciata lì, dimenticata. Nessuno – né insegnanti, né genitori – ci spiegava che quel piatto, se guardato con attenzione, poteva essere la prima vera medicina della nostra vita.
Si mangiava distratti, già con il pensiero alla campanella che avrebbe interrotto la pausa. Il cibo non era cura, era solo riempimento, una parentesi veloce prima del ritorno in classe. Forse da lì inizia la nostra diseducazione alimentare: non tanto dagli alimenti in sé, ma dal modo in cui impariamo a non considerarli.
Oggi, molti anni dopo, mi colpisce la forza di un annuncio che negli Stati Uniti ha acceso un dibattito: Robert F. Kennedy Jr., Segretario alla Salute, ha dichiarato che la nutrizione diventerà parte integrante della formazione dei futuri medici. Non più una parentesi opzionale, ma un fondamento obbligatorio. Una frase colpisce più delle altre: “Ogni futuro medico dovrebbe padroneggiare il linguaggio della prevenzione prima ancora di toccare uno stetoscopio”. In altre parole: prima il cibo, poi la pillola.
Perché non piace parlare di cibo come cura
Sembra una verità semplice, persino ovvia. Eppure, a ben guardare, non è comoda per nessuno. Non piace alle industrie farmaceutiche che vivono di malattie croniche e di terapie protratte nel tempo. Non piace a una società che ama l’immediatezza: una compressa che scioglie il dolore in mezz’ora sembra più desiderabile di un cambiamento di abitudini che richiede settimane o mesi. Non piace nemmeno, talvolta, alla gente comune, che preferisce la bacchetta magica del farmaco alla disciplina lenta della tavola.
Mangiare bene significa responsabilità quotidiana, lentezza, attenzione. Significa dire di no a certi eccessi, imparare a riconoscere il proprio corpo, rifiutare la logica del “tutto e subito”. È una medicina silenziosa, che non promette effetti immediati ma costruisce nel tempo una salute solida e duratura. E in un mondo che misura tutto con la fretta – like istantanei, consegne in ventiquattro ore, diagnosi rapide – la lentezza stessa appare insopportabile.
L’evidenza scientifica: il cibo come primo farmaco
La letteratura scientifica conferma ciò che il buon senso suggerisce da millenni. Uno studio pubblicato su The Lancet nel 2019 ha dimostrato che una dieta ricca di frutta, verdura, cereali integrali e povera di zuccheri raffinati riduce drasticamente il rischio di malattie cardiovascolari. La Harvard School of Public Health ha mostrato che l’adozione della cosiddetta “Harvard Healthy Plate” – metà piatto occupato da verdure e frutta, un quarto da cereali integrali, un quarto da proteine sane – può prevenire fino al 30% dei casi di diabete di tipo 2.
La World Health Organization calcola che almeno il 70% delle malattie croniche più diffuse nel mondo occidentale – ipertensione, diabete, obesità, alcuni tipi di tumori – sia direttamente legato a fattori alimentari e a stili di vita. Non è un’opinione, è un dato epidemiologico: ci stiamo ammalando con la forchetta.
Eppure la medicina continua, troppo spesso, a formare medici bravissimi nell’uso del bisturi o nella conoscenza dei protocolli farmacologici, ma poco preparati a parlare di alimentazione. Un paradosso: quasi tutti i medici in formazione sono chiamati a consigliare i pazienti sul cibo, ma meno di un quarto si sente realmente preparato a farlo.
Mindful eating: la lentezza che guarisce
Qui entra in gioco non solo cosa mangiamo, ma come mangiamo.
La mindful eating – il mangiare con consapevolezza – non è una moda, ma una pratica sempre più studiata anche in ambito clinico. Ricercatori come Kristeller e Wolever (2011) hanno dimostrato che percorsi di mindful eating aiutano a ridurre l’alimentazione compulsiva, a migliorare la gestione del peso e a regolare la glicemia in pazienti con diabete.
Mindful eating significa fermarsi. Guardare il cibo, sentirne il profumo, osservare i colori, assaporarlo lentamente. Significa ascoltare i segnali del corpo, distinguere la fame biologica da quella emotiva. Insegna a mangiare meno, ma meglio, e soprattutto a costruire un rapporto sano con il cibo.
Immaginiamo di portare questa pratica nelle scuole primarie: un minuto di silenzio prima del pasto, un invito a osservare il colore della mela, a masticare lentamente, a riconoscere la sensazione di sazietà. Sarebbe un atto pedagogico potente: educare i bambini non solo a nutrirsi, ma a nutrirsi con coscienza.
Educazione alimentare come educazione civica
In Italia, un tale insegnamento dovrebbe diventare parte integrante del curriculum scolastico. Non un’ora opzionale, ma una vera e propria disciplina, accanto all’educazione civica e digitale. Perché il cibo non è solo salute individuale: è economia, ecologia, cultura. Un bambino che impara a leggere un’etichetta, a riconoscere la stagionalità di un prodotto, a cucinare un piatto semplice è già un cittadino più consapevole.
La mensa scolastica dovrebbe trasformarsi nel primo laboratorio di salute pubblica. Non più luogo di piatti dimenticati e distrazioni, ma spazio di apprendimento, di rispetto e di gratitudine. L’educazione alimentare non deve essere nozionismo: deve diventare esperienza diretta, laboratorio di vita.
La cura che non arricchisce nessuno
La verità è che mangiare bene non genera profitti. Non arricchisce industrie farmaceutiche, non gonfia i bilanci delle multinazionali del cibo ultraprocessato. È una medicina che non si vende in farmacia, ma si coltiva ogni giorno tra i fornelli e i mercati rionali. Ed è forse per questo che è così difficile da diffondere: perché non ha un ritorno economico immediato, ma solo un ritorno in salute e libertà.
Eppure è una cura democratica, alla portata di tutti. Non servono tecnologie sofisticate, ma conoscenza, educazione e volontà. Servono medici che sappiano parlarne, scuole che lo insegnino, famiglie che lo pratichino.
Una proposta per l’Italia
Se davvero vogliamo invertire la rotta delle malattie croniche, non basta aggiornare i programmi universitari di Medicina. Occorre introdurre un insegnamento strutturato di educazione alimentare e mindful eating fin dalle scuole primarie, trasformando l’Italia in un Paese che non solo cura, ma previene.
Un medico che sa di nutrizione può cambiare la vita di un paziente. Un cittadino che cresce con la cultura della buona tavola può cambiare il destino di una comunità. E un Paese che insegna ai suoi bambini a mangiare con consapevolezza può cambiare la propria storia sanitaria.
Forse non piace, certo non a tutti. Ma il cibo, se usato bene, è la più potente medicina che abbiamo.
Egidio Francesco Cipriano










