
Trattamento Sanitario Obbligatorio
Il gigante buono che non voleva morire
È il 5 agosto 2015, piazza Umbria a Torino. Andrea Soldi, 45 anni, è seduto sulla sua panchina. È lì che si rifugia quando i pensieri lo assalgono, quando la schizofrenia diventa troppo pesante. È un “gigante buono”, così lo chiamavano: alto quasi due metri, ma mite come un bambino. Quel giorno arrivano tre vigili urbani e uno psichiatra dell’ASL per un TSO. Andrea non vuole. Oppone resistenza, ma non è violento. Mai. Eppure, nell’operazione di contenimento, qualcosa va storto. Il gigante buono smette di respirare e muore. Quattro condanne per omicidio colposo, confermate anche in Cassazione. Ma Andrea non torna più.
Questa vicenda, insieme a quella di Francesco Mastrogiovanni e Giuseppe Uva, non è cronaca marginale. È il paradigma di un rischio che accompagna ogni dispositivo di trattamento sanitario obbligatorio: la possibilità di trasformarsi in uno strumento non tanto di cura, quanto di contenimento sociale e disciplinamento.
Una storia che ritorna
Il TSO nasce con la legge Basaglia (180/1978), che voleva chiudere i manicomi e restituire dignità al malato psichiatrico. Un trionfo della civiltà, che segnò l’Italia come avanguardia nel mondo. Ma il paradosso è che, accanto alla liberazione, si lasciò aperto un varco: la possibilità di internamento coatto, giustificato da “necessità e urgenza“. Nei decenni, questo varco si è allargato. Non tanto nei numeri assoluti, che restano limitati, ma nel modo in cui la società percepisce la devianza. Un tempo erano i folli rumorosi nelle piazze; oggi possono essere i fragili, gli eccentrici, gli scomodi.
Casi emblematici: quando il TSO diventa mortale
Francesco Mastrogiovanni (2009, Vallo della Lucania): maestro elementare, antifascista, fermato per una presunta violazione del codice stradale, sottoposto a TSO. Rimase legato mani e piedi per 87 ore fino alla morte per edema polmonare. Le immagini delle telecamere ospedaliere sono tra le più agghiaccianti della storia recente della sanità italiana. I medici e infermieri coinvolti furono successivamente condannati per sequestro di persona.
Andrea Soldi (2015, Torino): schizofrenico, morto durante un TSO in piazza Umbria. Il padre aveva richiesto l’intervento perché il figlio aveva interrotto le cure, ma l’operazione si trasformò in tragedia. Tre vigili urbani e uno psichiatra dell’ASL condannati per omicidio colposo. La famiglia ricevette un risarcimento di 400.000 euro da Comune e ASL prima ancora del processo, segno della consapevolezza delle responsabilità.
Giuseppe Uva (2008, Varese): fermato ubriaco dai carabinieri nella notte tra il 13 e il 14 giugno, portato in caserma e poi trasferito per TSO all’ospedale di Varese, dove morì. Nonostante le evidenze di maltrattamenti, tutti gli otto tra carabinieri e poliziotti coinvolti furono assolti in tutti i gradi di giudizio. La Corte Europea dei diritti umani ha accolto nel 2021 il ricorso della famiglia, riconoscendo le violazioni.
La follia come specchio sociale
Ogni epoca decide chi è folle. Nel Medioevo erano le streghe; nel Seicento gli untori manzoniani; nell’Ottocento i rivoluzionari spesso finivano nei manicomi. Oggi, nel mondo delle reti sociali e della comunicazione permanente, il “folle” rischia di essere chi non si allinea: chi critica il sistema, chi rifiuta le regole implicite della conformità. Lo psichiatra Franco Basaglia ammoniva: “Il manicomio non è la follia, è la risposta della società alla follia”. Oggi possiamo dire che il TSO è il riflesso di una società che teme l’imprevisto, l’incontrollabile, la voce dissonante.
Psicologia del potere e paura del diverso
Dal punto di vista psicologico, il TSO mostra la tensione tra due forze:
- da un lato, la cura autentica, che vorrebbe aiutare chi è in pericolo;
- dall’altro, la paura collettiva, che chiede ordine, silenzio, eliminazione del disturbo.
Ogni volta che prevale la seconda, il TSO diventa uno strumento di esclusione. I casi di Mastrogiovanni, Soldi e Uva mostrano che spesso la “pericolosità” è un’etichetta più sociale che clinica.
Una memoria che inquieta: le donne “inadeguate”
Non si tratta solo di cronaca. Nella storia italiana e mondiale, i dispositivi di psichiatria coatta sono stati usati per reprimere oppositori politici, omosessuali, dissidenti religiosi. Ma c’è un capitolo particolare, spesso rimosso, che riguarda le donne.
Fino al 1968, adultere, prostitute, lesbiche, donne irrequiete, emancipate, dal temperamento ostinato e ribelle, ragazze madri sono tutte presunte anomalie della femminilità da rinchiudere in un manicomio. Durante il fascismo, la categoria principale delle internate era quella delle cosiddette “madri snaturate”, ovvero coloro che non hanno saputo assolvere a quel ruolo materno su cui la propaganda martellava, poiché la propaganda fascista mirava a mostrare un’immagine della donna come elemento portante della famiglia: la sua funzione era quella di riprodursi il più possibile.
Le cartelle cliniche dell’epoca riportano voci che adesso appaiono inverosimili, ma che all’epoca erano indizio di devianza sociale: stravagante, loquace, capricciosa, erotica, smorfiosa, piacente, civettuola. Centinaia di donne furono rinchiuse, spesso senza tornare mai più ad una vita normale, in un viaggio nei pregiudizi verso la femminilità che “non si adeguava alle aspettative”.
Il manicomio diventava così lo strumento per “bonificare” la femminilità scomoda: la decisione sull’internamento di madri, figlie e sorelle definite “spudorate” o sessualmente “sregolate” o “libertine” spettava alle famiglie. Prima del 1978, tantissime donne sono state internate solo per volontà di un marito.
Questa storia femminile dei manicomi rivela come la “follia” sia spesso stata l’etichetta applicata alle donne che osavano essere intelligenti, libere, sessualmente autonome, economicamente indipendenti o semplicemente diverse dal modello imposto. In Unione Sovietica, fino agli anni ’80, bastava criticare il regime per essere diagnosticati con “schizofrenia lenta”. In Italia, durante il fascismo, i manicomi ospitarono antifascisti scomodi e donne “inadeguate”. La domanda allora si fa pressante: quanto siamo davvero lontani da quel rischio?
Il controllo sociale nell’era della normalizzazione
Il tema assume particolare rilevanza se pensiamo ai meccanismi di controllo sociale che abbiamo sperimentato durante il lockdown del 2020-2021. La società ha dimostrato una straordinaria capacità di accettare limitazioni delle libertà personali in nome della salute pubblica. La medicalizzazione del dissenso, l’etichettatura di comportamenti “irresponsabili” o “pericolosi”, la rapidità con cui il diverso diventa minaccioso: tutti elementi che dovrebbero farci riflettere sui rischi insiti in qualsiasi dispositivo di controllo, anche quello apparentemente più benevolo come il TSO.
Negare?
Non si tratta di negare che ci siano situazioni in cui il TSO è necessario: un paziente in piena crisi psicotica, che rischia di far male a sé o agli altri, non può essere abbandonato. Ma la zona grigia è ampia. E lì, dove la diagnosi diventa interpretazione, la società dovrebbe essere estremamente cauta. E invece la tendenza è opposta: medicalizzare la devianza, psichiatrizzare il conflitto, trasformare la voce fuori dal coro in sintomo.
I casi di Mastrogiovanni, Soldi e Uva tornano allora come monito: non sempre è il paziente ad avere bisogno di cura. Spesso è la comunità, con le sue paure, le sue rigidità, i suoi meccanismi di esclusione. E quando il silenzio cala dopo un TSO, non è detto che sia pace. Può essere solo il silenzio di chi ha imparato che esistere fuori dalla norma costa troppo. A volte, può costare la vita.
Egidio Francesco Cipriano
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Note bibliografiche
- Caso Francesco Mastrogiovanni: Documenti processuali e sentenze del Tribunale di Salerno, 2009-2014. Documentario “Gli equilibristi” (2012). Reportage su La Repubblica, Il Manifesto, Corriere del Mezzogiorno, 2009-2010.
- Caso Andrea Soldi: Sentenze Tribunale di Torino (2017), Corte d’Appello di Torino (2020), Cassazione (2022). Libro “Noi due siamo uno” (2018), con il diario di Andrea Soldi. Documentazione Amnesty International Italia: Sentenza d’appello per la morte di Andrea Soldi. Redattore Sociale: Il gigante buono che non voleva il Tso.
- Caso Giuseppe Uva: Atti processuali Corte d’Assise di Varese (2016), Corte d’Appello di Milano (2018), Cassazione (2019). Ricorso CEDU accolto nel 2021. Documentazione A Buon Diritto: Caso Uva: dopo 14 anni ancora nessuna giustizia. Amnesty International: Caso Giuseppe Uva: la Corte europea dei diritti umani accoglie il ricorso.
- Legge Basaglia: Legge 180/1978, “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. Documenti dell’Istituto superiore di sanità. Bibliografia su Franco Basaglia: “L’istituzione negata” (1968), “Che cos’è la psichiatria?” (1967).
- Fonti normative e giurisprudenziali: Codice civile, artt. 32-35 sulla tutela della salute. Giurisprudenza di legittimità in materia di TSO: Cass. Civ. SS.UU. n. 23707/2007, Cass. Pen. Sez. VI n. 48292/2014.
- Studi statistici: Istituto superiore di sanità, “I trattamenti sanitari obbligatori in Italia” – Rapporti annuali 2015-2022. Ministero della Salute, Direzione generale della prevenzione sanitaria.










