Il 50% degli elettori è rimasto a casa.
Editoriale a cura di Francesco Ruggieri
Chi ha avuto esperienza diretta con la F.A.D. (formazione a distanza), o la D.A.D. (Didattica a distanza), e mettiamoci pure il cosiddetto lavoro agile o smart working – soprattutto gli addetti ai lavori – non può che testimoniare il loro fallimento. Sicuramente strumenti utili in piena emergenza, ma assolutamente inadeguati se imposti strutturalmente. Mettendo da parte per un momento la questione socializzazione, rapporti interpersonali, comunicazione non verbale, è sul piano della fattibilità che è crollato tutto; innanzitutto per un elevato livello di digital divide; l’assenza in molte case di un computer, per non parlare delle connessioni ballerine e, soprattutto nelle periferie, in molti casi del tutto assente.
Tanta fatica per i docenti e per le famiglie, risultati sul piano della formazione molto modesti. Con soddisfazione per tanti studenti che si sono visti premiati senza averne merito.
Come i tanti (non tutti va detto), illustri sconosciuti, che nelle ultime elezioni politiche si sono ritrovati in Parlamento “a loro insaputa”. Sono quelli della P.A.D., la politica a distanza; quelli dello streaming, durato il tempo della campagna elettorale, dell’“uno vale uno” (ma solo a parole), delle decisioni assunte seduti dietro un PC o uno smartphone, navigando su piattaforme gestite da un’azienda. Dei tanti impegni non mantenuti.
Ma non sono loro. 7 punti percentuali in meno di votanti nelle ultime amministrative, che peraltro si sono svolte in due giorni, sono un dato che certifica definitivamente come la politica ormai sia lontana, distante dalla realtà. La politica a distanza, insieme a tutta una serie di altre circostanze, sintetizzabili nel generale mancato rispetto degli impegni assunti (onestà vuol dire innanzitutto mantenere le promesse!), ha portato alla debacle di chi deve le proprie fortune alla teorizzazione dell’antipolitica. Semplicemente perché passati dall’antipolitica alla politica!
Nel 1992-93 mani pulite, su cui prima o poi si comprenderanno meglio le origini e gli obiettivi, ha distrutto un sistema ritenuto corrotto, sostituendo i partiti del dopoguerra, quelli della ricostruzione, della crescita, del benessere, con i nuovi partiti-azienda-personali. Medicina rivelatasi peggiore della malattia.
Poi la rivoluzione della “democrazia diretta”, idea non nuova, già teorizzata nell’antichità (la democrazia ateniese si fondava su due principi: il sorteggio nelle cariche pubbliche e l’assemblea legislativa a democrazia diretta composta da tutti i cittadini), di fatto irrealizzabile, anche alla luce dei principi costituzionali che parlano chiaramente di democrazia rappresentativa. E nei fatti non realizzata, salvo non si ritenga democrazia diretta il voto online di qualche decina di migliaia di militanti.
Alla fine, insomma, due “rivoluzioni” che non hanno colto l’obiettivo. Semplicemente perché l’obiettivo non può essere la distruzione dei partiti ma, al contrario, il loro rafforzamento con un recupero della partecipazione; con le sezioni aperte, i congressi, il confronto, la formazione della classe politica. Andavano tagliati i rami secchi e invece si sono tagliate le radici.
Nei giorni scorsi al voto si sono recati solo il 54,7% degli aventi diritto, e si votava in due giorni. Con punte al di sotto del 50%. C’è totale disinteresse, non solo sfiducia nei politici. Scompare l’idea stessa di comunità che con il voto sceglie i propri governanti ed amministratori.
Questo perché non c’è più contatto tra politica e mondo reale. Ormai si punta solo a raccogliere il consenso, in qualunque modo, soprattutto con la ipercomunicazione. È il momento degli spin doctor, quelli che “accarezzano la comunicazione” (ogni riferimento alla “bestia” è voluto).
Viviamo oggi un momento di chiara transizione con un governo nelle mani di un super tecnico di grande esperienza e molto ben inserito a livello internazionale; riesce ad andare avanti non perché la variegata e innaturale maggioranza che lo sostiene in Parlamento ne condivida l’azione ma solo perché NESSUNO vuol anticipare la fine della legislatura che per tanti, soprattutto dopo il taglio dei parlamentari, sarà certamente l’ultima.
C’è tempo per correre ai ripari. Il problema non è quello di “allargare il campo”, ovvero creare federazioni, cementare alleanze, studiare strategie per mantenere il potere, ma riportare i cittadini alla partecipazione.
Ci riusciremo?